AFFINITA' INTELLETTIVE


«Due cuori amanti sono come due orologi magnetici;
ciò che si muove in uno non può non far muovere anche l’altro perché in entrambi agisce la medesima cosa,
perché li attraversa una sola forza»
(J. Wolfgang Goethe)



La guardo di sottecchi, tra gli scaffali.
Lei, sempre, seconda fila ala destra, seminascosta nella penombra del mattino, dove il pomeriggio poi batte il sole.
Cattura tutti i raggi, tutti gli occhi e i sogni di chi viaggia in quell’antica libreria dell’ Universitè Nanterre de Parìs. S’intenda, non che sia la migliore, ma la piccola biblioteca, così impolverata, racchiude veri tesori che Julìe va esplorando, cercando chissà cosa.
Col tempo ho imparato a conoscerne le occhiaie chiuse sotto un paio di occhiali scuri, i sogni nell’Oceano che si muove dentro i suoi dolci occhioni blu, le speranze che di rado si sciolgono in piccole lacrime e che nasconde furtiva con le mani.
Un giorno avrebbe trovato ciò che cercava, la sete si sarebbe placata e lei se ne sarebbe andata di lì. Io sarei rimasto. Per lei solamente.
«Sarei già andato lontano,
tanto lontano quanto è grande il mondo,
se non mi trattenessero le stelle
che hanno legato il mio al tuo destino,
così che solo in te posso conoscermi.
E la poesia, i sogni, il desiderio
Tutto mi spinge a te, alla tua natura,
e dalla tua dipende».1
Ogni giorno la vedo arrivare, al mattino, otto e mezzo in punto, orario d’apertura, con gli occhi nascosti. A volte porta jeans slavati che ne fasciano le curve. La maggior parte dei giorni accuratamente nascoste sotto un maglione. Eppure anche quando si toglie gli occhiali, le cola il mascara e si avvolge nella lana nera sfilacciata, sa ravvivare quella tana di topi da biblioteca.
Questo accade solo al mattino. Quando poi il vociferare si fa più forte, ne disturba le letture, i pensieri, sparisce un attimo, secondi o minuti, dipende dalle volte. Istanti di panico.
La borsetta rimane lì accidentalmente appoggiata. Sogno da sempre, dai sei mesi che la scorgo in quel nido d’amore, di restituirgliela un giorno, di poterle sfiorare la mano. Lei forse non mi noterà mai.
La guardo sempre. Dalla terza fila di scaffali, il più impolverato, godo di una posizione privilegiata. Da lì ne intravedo gli occhi Oceanici, sempre un po’ assorti come se salpassero verso qualche altro luogo. La amo e allo stesso tempo soffro nel vederla lì ogni giorno. Le mostrerei il mare. Lo so soprattutto i giorni in cui per lasciar spazio a nuovi intellettualoidi avanzo di un paio di file.
E lo capii un giorno di Marzo: il nostro primo incontro, distratto. Mi passò vicino, «Jo-hann» sussurrò, scandì il mio nome quasi lo leggesse sull’etichetta di un impiegatuccio senza volto. La guardai un attimo, mi bastò per scorgere nel blu dei suoi occhi grandi, resi piccoli da una stanchezza che si portava nel cuore, la voglia di conoscere, il sogno d’amare. Lo capii, lo vidi ma Julìe, assorta com’era, forse nemmeno si rese conto di pronunciare quelle sillabe ad alta voce, che poi alta non era. Sussurrò.
Fu amore. Volevo essere posseduto, volevo avvicinarmi a quell’animo angelico, riempire il vuoto che cercava di colmare ogni mattina tra i libri che non trovava e che camuffava tra i raggi di luce dei pomeriggi chiassosi in cui tutti la desideravano ma nessuno la voleva, non quanto me.
«Dove c’è molta luce, l’ombra è più nera»2, me lo ripetevo puntualmente ogni giorno quando verso le tre una cerchia di ragazzi le lanciava occhiate d’intesa. Erano ingombranti, così invadenti sul suo corpo che non si poteva possedere. Juliè la potevi scoprire solo negli occhi, nella penombra dei suoi pensieri.
La tenacia con cui si presentava puntuale ogni giorno poco dopo le otto, col sole primaverile ancora basso, mi dava qualche chance. Avevo almeno il tempo dalla mia, mentre la timidezza con cui me ne stavo seminascosto tra i libri giocava contro.
In quel primo incontro, d’amorevoli sensi, scorsi da sotto una frangetta biondina colei “ch’avea intelletto d’amare”. Da lì presi a sognare il giorno che col suo fare gentile avrebbe nuovamente sfiorato, anche così, accidentalmente, la mia ruvida pelle. Avrebbe avuto gli occhi per vedermi, quelli che qualche giorno indossava, grandi quanto i sogni.
Quel giorno la mia anima non avrebbe avuto più segreti. Ma quel giorno si attardava .
Ormai l’amavo, conoscevo il passo distratto con cui volteggiava su tacchi neri e scivolava tra le file dei banchi, sempre così lontana da me. Quando tornava da quei minuti di panico aveva le curve sinuose che si concedevano ad un mondo che così a Julìe pareva di poter vivere un po’ di più. Gli occhi erano tutti per la biondina seconda fila ala destra. Soffrivo alla Werther quando la vedevo tornare con l’ anima così camuffata, diveniva inarrivabile. E inafferrabile il giorno in cui oltre l’impatto di un tocco ruvido le avrei sussurrato quei versi che nessuno di quei tipelli poco gentili le sapevano recitare. Non la conoscevano.
La guardo ogni giorno, da sei mesi e di notte, tra i versi che sogno di sussurrarle, l’aspetto.
«Il tuo amore è per me come le stelle del mattino e della sera,
tramonta dopo il sole
e prima del sole risorge»3.
Era un martedì quando molto meno distrattamente pronunciò il nome di Francois, un ragazzo così arrogante, ma si sapeva avvicinare. Le regalò un bacio perugina. Si appartarono tra la fila di libri accanto a me, non mi notarono, quel tale srotolò il foglietto contenente una frase.
La sorte fu malvagia quando la vidi arrossire davanti a quell’interpretazione da Oscar “Se amore ispirò mai un uomo innamorato, nel modo più gradevole e giovando, a me questo fu dato”4.
Il mio furore divenne incontenibile, quella storpiatura, parole buttate in pasto ad un lupo che una come Julìe se la sarebbe sbranata solo per golosità. Per giorni non mi diedi pace. Non capivo come un altro avesse il diritto di averla cara.
«Mentre io amo lei, unicamente,
così dal profondo, così pienamente,
e non conosco, e non so, non ho altro che lei» 5, leggevo e rileggevo. Lei fragile e crudele, insicura, finse anche con lui. Si fece adulare ma che se ne faceva di versi rubati, di un bellimbusto senza pensieri, senza parole. Lei cercava qualcosa da tempo e continuò a farlo.

Presto arrivò il giorno in cui il mio animo si fece inquieto, in cui la direzione decise di cambiarmi di posizione. Ora Julìe leggeva da sola. Io l’amavo ancora più in silenzio.
Il passato riaffiorò sulla mia pelle.
Quante notti avevo passato ad allietare giovani donne, senza darmi, senza nulla ricevere. Io mi muovevo di mano in mano, di letto in letto, recitavo versi d’amore da gran playboy. Ma erano loro, donne abbandonate, donne mature, donne sconsolate a gestire i giochi.
Un giorno, quando Julìe non si faceva vedere ormai da una settimana, entrò dalla porta scricchiolante una donna mora, slanciata. Madame Fuilland parlò al bibliotecario, lui fece cenno di sì e con un gran bel portamento mi si avvicinò e mi portò via con sé. Destinazione aula G120, “Corso di Letteratura”.
Stavano leggendo “I dolori del giovane Werther”, a me sarebbero toccati «i versi di una raccolta di poesie in cui vive tutto l’amore di Wolfgang Goethe», così prese ad introdurmi la Fuilland contenta del suo nuovo acquisto e buttandomi uno sguardo complice.
A me mancava Julìe. «Avrei potuto recitare quei versi pensando a lei», mi contorcevo su me stesso. Ma la classe era un po’ indietro col Giovane Werther perciò attaccarono con la lettura.
La sorte forse non era così crudele. Una voce soave, dolce e tremante, la riconobbi subito, prese a leggere:
«Noi ci separammo senz’esserci capiti. Ma non è facile capirsi a questo mondo»6.
Mi sentii smarrito tra le pagine, sognai di non aver mai sentito quei versi prima, che Julìe mi avesse scorto in aula, che mi stesse dedicando quelle parole. Ma non era altro che la lettura obbligatoria di un romanzo che avevo già udito mille volte.
L’illusione di quell’attimo fu enorme. Sentii tutte le speranze, che Julìe piangeva di nascosto, grondare nelle pagine che avrei voluto leggere solo per lei, per nessun altra, non quel corso, non in quell’aula. Julìe proseguì:
«Che cos’è mai l’uomo, questo semidio tanto apprezzato? Non gli mancanole forze proprio quando gli sarebbero più necessarie?7»
Il tono si fece amaro, dubbioso.
« E che si prenda lo slancio nella gioia o si sprofondi nel dolore, non è forse in entrambi i casi arrestato, ricondotto al cupo, freddo sentimento di se stesso, mentre aspirava a perdersi nell’oceano dell’infinito?” 8».
Con voce rassegnata si scostò dal testo. Gli occhi le si fecero piccoli, non più oceanici, vuoti, senza speranze. Quelle parole, forse le mie, l’avevano ferita, l’avevano punta lì dove fa male. La sua ricerca sembrò improvvisamente vana. L’oceano, l’infinito, forse non esistevano. Julìe raccolse le sue cose e se ne andò.
Feci ritorno in biblioteca solo il mese dopo.
Il banco di Julìè era vuoto, il mio scaffale aspettava solo me e la mia solitudine. I giorni mi rendevano sempre più vecchio.

«E da allora sole, luna e stelle possono continuare tranquillamente il loro corso. Io non so più se sia giorno o notte e tutto il mondo mi scompare intorno9»

Si faceva sera e poi mattina, senza stelle di mezzo. Mi sentivo chiamare a destra e a manca, mi si avvicinavano sconosciuti in cerca di curiosità da soddisfare. Ero di nuovo un oggetto senz’anima.
Arrivò Maggio, il bellimbusto pronunciò il nome di Julìe quel paio di volte sufficiente a farmi intuire che un po’ tutti ne avevano perso le tracce.
Era forse partita? Non poteva essere, lei non aveva ancora trovato, aveva sete di conoscenza, doveva scovare il suo libro. Aveva ancora molto da esplorare. Lo diceva il tono con cui aveva pronunciato le sue ultime parole che avevo udito. Parlavano dell’Oceano che in lei viveva e in cui voleva perdersi, dell’amore per sé che non trovava, amore per le parole, amore per l’Amore..

La porta di Nanterre scricchiolò ancora una volta. Non erano tacchi quelli, né jeans slavati. Controllavo perché avevo mille versi che si agitavano in me, che morivano sotto la polvere. Mi mancavano “Le Stelle: la luce che rendeva l’ombra più nera”6. Avevo imparato ad amare tutto di lei.
Un paio di scarpe da corsa slacciate si avvicinarono al bancone. La ragazza si chino ad allacciarle. Alzò gli occhi. Era l’Oceano, Julìe. Prese a parlare, io di nuovo a respirare. Non si sedette. Parlò al bibliotecario, gli mostrò la sua tessera, scrisse sulla tastiera “Le Affinità Elettive, I dolori del giovane Werther e versi d’amore” di Johann Wolfgang Goethe e cliccò invio.
Senza maglione, quando era quasi Estate, quando era finita la stagione degli amori, mi si avvicinò, terzo scaffale. Le speranze che le avevo visto rigare il viso presero a nuotare nell’Oceano dei suoi Occhi blu.
Mi riconobbe sulle dolci note di una speranza che non risuonava più come una fantasia ma un minuetto a quattro mani.
Sorrise. Disse Johann - Wolfgang - Goethe ad alta voce.
Aveva trovato. Ora mi possedeva, mi aveva scovato tra le tenebre dei suoi pensieri.
Scostò la polvere dalla pelle per leggere meglio sull’oro intarsiato in copertina le mie iniziali, mi accarezzò e mi mise nella sua tracolla.
Julìe ora aveva l’Amore in borsa. A entrambi, questo bastava.

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