HEIKO


Mancavano cinque ore al matrimonio, quattro alla foto ricordo. E Martina era tutt’altro che pronta. Cominciò a frugare nell’armadio alla ricerca della borsetta che doveva rifinire. Ma la sua attenzione fu catturata dallo specchio: un corpo esile, un paio di sporgenze antiestetiche sopra lo zigomo sinistro, gli occhi che si muovevano in modo disarmonico e i capelli corti, come una principessa di seta non avrebbe avuto il coraggio di tagliare. Mai, se quel cinque gennaio non l’avesse condotta in una sala operatoria con un’emorragia cerebrale, tre vertebre fratturate e il terzo nervo cranico danneggiato. Lì, immobilizzata, intubata, sedata, a lottare contro il tempo.


Erano passati nove mesi ormai ma il corpo tratteneva i segni di quell’incidente stradale. Nei lividi erano tatuati equilibrio e vista non ancora recuperati.

Ma Martina non poteva più perdere tempo, doveva scegliere i vestiti che avrebbero accuratamente coperto il corpo e l’avrebbero scoperta. Le bastò distogliere lo sguardo dallo specchio e con la mente fu di nuovo Maggie, quel corpo che si era improvvisamente e provvisoriamente trovata ad abitare, per mesi. Di cui rimanevano solo piccole tracce allo specchio.

Tornò Maggie e tornò in quella piccola stanza d’ospedale.

Era seduta su una sedia a rotelle in un angolo di quella camera: pareti bianche, alcune sedie a rotelle e una porta da cui entravano echi di sguardi indiscreti, curiosi, dispiaciuti. Da quella porta era entrato anche un uomo con un pacchetto di chipster in mano. Il rosso e il giallo delle patatine davano colore alla monocromaticità del suo vestire: pantaloni, maglietta, cintura e scarpe grigi, tono su tono, portati da un uomo alto, ossatura robusta, capelli lunghi e biondi, barba incolta. Heiko, così lo chiamò una voce in fondo alla stanza, era un corpo deciso e robusto che si muoveva con grande agilità e colore tra le carrozzelle. Si diresse verso la vocina, dove lo sguardo degli altri visitatori portava.

Era una ragazzina sui diciott’anni su di un corpo dilaniato. Aveva due bellissimi occhioni blu, la testa fasciata, la schiena immobilizzata da un busto, il viso deformato lungo il profilo sinistro fino all’altezza della bocca, asimmetrica. Era impossibile non guardarla con gli occhi di un esteta che l’avrebbero rivoluta bella. Il suo corpo a Maggie sembrò sottoposto ad un bombardamento di raggi X, di occhi che non la lasciavano in pace e che nemmeno ne conoscevano il nome. Di lei, tutta occhi e grandi cicatrici che le tracciavano il corpo, su cui tutti i presenti, con poca prudenza, conducevano la propria attenzione. Creavano un grande ingorgo sul suo piccolo corpo martoriato e lasciavano ad Heiko di guardare al profondo negli occhi. Lui, chinato sulle proprie stringhe slacciate, si rialzò velocemente, diede un’occhiata incerta a Maggie e poi puntò diritto e sicuro verso il suo piccolo faro, attrazione di tutti i presenti. Heiko era l’unico che non la scrutava ma semplicemente la vedeva. Maggie vide in quello sguardo non rivolto a lei un uomo tranquillo in quel contesto ospedaliero. Aveva gambe incrociate, disinvolte, le dita gli si muovevano sicure dal pacchetto alla bocca della bambina. Non appena però volse gli occhi a Maggie, che gli si avvicinava, quella disinvoltura sembrò sparire. Maggie incrociò lo sguardo di Heiko ancora una volta e notò imbarazzo. Le sembrò un uomo sicuro, di sua figlia, delle chipster che aveva comprato, dei pantaloni che indossava ma non di ciò che non rientrava nel contesto a lui familiare. In quegli occhi scuri e luminosi si era figurata un marinaio solitario o forse un pittore, sicuro sulla tela, in continua messa in discussione nella vita.

Maggie si avvicinò abbastanza da sentirli, lui e ‘solo occhi’, impegnati in un botta e risposta incalzanti. Il tono sicuro di lui non la stupì.

- Sono stanco di sentirmi addosso gli sguardi dei passanti.

- Sempre a lamentarti. Sei bello e ti guardano. Io invece passo inosservata, per tutti sono solo pensieri, non so mai come mi vedano. Nessuno riesce a farsi un’idea di me se non parlo. A volte vorrei starmene zitta ed essere solo un guscio.

- Non ti do torto. Quando ci si sente belli non è male avere tutti gli sguardi addosso. Però molte volte ho delle chiazze sul corpo e tutti mi guardano con disprezzo, non importa che stia pensando a cose bellissime. Mi schivano perché non soddisfo i loro occhi. Sai che fatica cercare di farli smettere di guardare alla corazza per conoscermi.

- Oggi sei bellissimo. Sei pulito e luccichi anche se hai dei brutti pensieri. Li puoi nascondere, quelli.

- Anche tu sei bellissima.

- Vuoi dire che i miei pensieri ti piacciono. Però se non ti piacessero sarei bruttissima e non potrei nascondermi dietro a un corpo piacevole

- Oh, grazie. Vuoi dire che per te conta più se sono bello fuori e non dentro?

- Ma no, cosa c’entro io? Parlo degli altri, che non mi vedono e devono cercarmi. Anche io devo cercarmi. Mi guardo allo specchio e vedo solo il mondo che ho dentro, l’unico che interessa. Tu invece puoi anche non fare la fatica di pensare per farti vedere.

All’improvviso il tono dolce di un’infermiera li interruppe. Peccato, erano affascinanti. A quanto diceva la donna, doveva fare l’ennesima tac e un prelievo. La voce di ‘solo occhi’ però non era spaventata e le uscì squillante: - Papà, però la prossima volta fai tu la lumaca e il guscio lo faccio io!

La bocca di Martina le si spalancò dallo stupore.

- No, signorinella. Ci sono già due favole che ci aspettano. Non vedo l’ora di essere la tua conchiglia.

- Sì, d’accordo. Però se farò la parte della perla meglio di come ho fatto la lumachina nascosta nel guscio decido io la prossima favola da inscenare.

- Va principessa, vedremo domani.

E mentre la lumachina usciva, Martina la vedeva serena e incurante del suo corpo. Tanto il guscio malato che la proteggeva non era lei, gli sguardi e l’ago non erano per lei.

Martina si avvicinò ad Heiko. Con una curiosità che non riuscì a trattenere gli chiese: - Sei il suo papà?

L’uomo, di nuovo, la guardò e subito distolse lo sguardo. Occhi da marinaio, pensò. Ma lui, con voce sicura di chi ha vissuto, rispose:

- Sono il guardiano di un faro.

- Di un faro?

- Sì, pochi ne sono capaci, anche perché richiede acutezza e passione.

- Anche attenzione e responsabilità, direi.

- Occhi attenti e vigili verso il mare. Attenti alle manovre dei marinai, alla direzione delle prue.

- A guardarle col mare grosso però le barche sembrano più in balia dell’acqua che delle manovre di marinai.

- Se ci pensi il mare ti può risucchiare, come gli sguardi divoratori della gente. Ma quando l’uomo è capitano della propria nave, si sente padrone, doma con gesti pronti e decisi e pensieri lucidi quel pezzo di legno. Solo legno da indirizzare in porto.

- E verso dove la luce del tuo faro li indirizza.

- E’ per questo che devo essere attento. Accendere il faro al momento giusto, ad intervalli ed intensità regolari, in modo che la mia luce guidi le loro manovre e di conseguenza le barche in porto.

“Che strano mestiere”, pensava Martina tra sé e sé.

Trilli via via più insistenti - suoneria modalità ascendente - di un cellulare tra le mani di Heiko, lo portarono via, via da quella stanza

-Sì, buongiorno, mi dica - Il marinaio e il pittore erano scomparsi dietro a una voce fredda e professionale, come se un marinaio non potesse possedere un telefonino. Un telegrafo forse sì. - Questo pomeriggio potrebbe venire nel mio studio in centro per una prima analisi della figura - La luce del faro si stava spegnendo - Signora, potremo stabilire i tempi solo dopo aver deciso l’entità delle modifiche da apportare ai suoi zigomi. E non serve che lei porti il Vanityfair di sua figlia. Abbiamo già noi un campionario ampio di volti, suddivisi per fasce di età. Potrà scegliere in modo più che soddisfacente tra quelli.

Martina si era sbagliata, negli occhi freddi e distaccati di Heiko aveva ritrovato il suo pittore, uscito dalla tela, combattuto, rassegnato a dipingere nature morte - Signora, farò il possibile. L’aspetto in via Gesù al nove – concluse. Heiko chiuse lo startac, lo ripose in tasca e Martina, cercandolo disperatamente, incrociò il suo sguardo. Ed eccolo di nuovo, imbarazzato. Con voce timida le disse: - Mi hai chiesto chi ero, non che mestiere facessi per mantenere me e le cure per mia figlia.

Alla parola figlia la voce di Heiko riacquistò colore. Divenne sicura. - Ora devo andare a riportare il mio bellissimo veliero in porto. Sai, dopo le analisi si sente sempre una vecchia zattera in balia del mare. E’ in questi momenti che un faro deve saper guidare. Quell’uomo, con una disinvoltura ritrovata, uscì senza far troppo rumore nel grigio dei suoi abiti e tra le mille sfumature

dei suoi sguardi. Anche Martina uscì e parlò di nuovo, tra sé e sé: - Va’ guardiano, conduci il tuo veliero al sicuro, la lumachina nel guscio e salvala di nuovo dal guscio. Non permettere che i pensieri le si schiantino contro gli sguardi della gente e così diventi solo una conchiglia vuota.

Martina si sentì rassicurata dalle proprie parole. Scivolò nel letto sicura che ‘solo occhi’, protetta da una conchiglia, si sarebbe sempre sentita una perla, mai nemmeno un granello di sabbia.

Quando riaprì gli occhi c’era Giulio, una figura imponente che la guardava con dolcezza. Guardava Maggie e si sistemava la maglia che gli aderiva al bicipite. Maggie con un filo di voce parlò: - Mi sposteresti più in là, in fondo alla stanza?

Giulio le rispose dall’alto del suo metro e ottanta con voce smarrita:

- Sorriso, sei già contro il muro.

- Te lo chiedo per favore. Con tutti quei muscoli potresti anche spostarli!


...........
 Gli occhi di Maggie avevano ripreso a dormire. E non avevano più smesso di mettere a nudo Martina. Lei era diventata informe, trasparente. Immobilizzata in un corpo che non poteva più distrarre gli sguardi da quello che era. Privata della farfalla mostrava il bruco. In quel letto, poi su quella sedia a rotelle, poi sulle gambe che non ne reggevano l’esiguo peso, aveva sentito stretta quella poca pelle. Il nuovo guscio era troppo piccolo per racchiudere una lumaca. La vita dentro urlava e invece di rimbombare si faceva ascoltare, si faceva vedere.


Aveva ripreso a incontrare Heiko più volte. Lo aveva sentito parlare di nuovo a ‘solo occhi’. Più volte tirarla fuori dalla camera d’ospedale, tirare fuori il bruco dalla larva, la perla dalla conchiglia. Martina da Maggie.

Giulio prese a parlare con un medico:                                                                          

- Cosa le succede?

- E’ sotto l’effetto della morfina e dei sedativi. Questi momenti di non lucidità le si alterneranno a fasi deliranti.

Il ricordo di quella scena riportò Maggie davanti allo specchio, a tre ore dal matrimonio. Martina spostò le scarpette verdi, indossò i jeans e prese a camminare fino al faro davanti casa. Ai piedi aveva le sue Nike. Poteva correre. In due minuti fu in riva al mare e da sotto il faro lo guardava, come Heiko aveva sempre guardato lei, incerto.
E lì Martina si chiese se quell’uomo fosse realmente esistito.
Se quell’imponente ed agile figura non si muovesse ogni volta nelle Nike di Martina e se ne andasse via sui tacchi incerti di Maggie

     
                                        
                                          ....    THE END      

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