OCEANO DI ROSE



Il cielo minaccioso di Edimburgo attendeva Stella da anni, almeno tre, da uno squillo nel cuore della notte. La telefonata di quello sfocato 10 febbraio 2003 non aveva mai avuto un vero significato, nessuna parola da annotare sul block notes accanto al telefono.
Al primo, nei giorni successivi, seguirono altri squilli. Furono giorni di silenzio, nel cuore di Stella. Quello era divenuto il recapito provvisorio di Zia Rose.
Passarono i minuti, le ore si dispersero in anni, quelli del Triennio in Lettere Antiche che Stella concluse nell’estate del 2006.
Era tempo di viaggiare, di esplorare, frugare, scavare nei siti polverosi dove aveva vissuto Rose.
Aveva comprato un paio di scarponcini pronti a ripercorrere i viottoli angusti che portavano al cancelletto sul retro di Lomond Road, al numero 12. Tra i panni stesi al sole timido di Coatbridge, un giardinetto erboso e sfiorito, avrebbe portato piedi zuppi di fango sul retro di una casetta svuotata. Era bianca, incastrata tra le altre quindici che scalavano la strada che conduceva al sagrato di Saint James.

Le cronache datate 10 febbraio 2003 parlavano di una giovane donna, sulla quarantina, scivolata in un ruzzolo mortale sulla moquette di casa, trenta gradini fatti d’un fiato dall’odore di un Jack Daniel’s di troppo.
Niente di più sbagliato. Rose ne aveva trentotto di anni e quel giorno sua zia non si trovava in casa, ormai da un tempo inafferrabile.

Il 10 Luglio iniziò il viaggio di Stella.
Rose era caduta e Stella doveva sapere. Il perché se l’era sbriciolato a poco a poco, tra le pagine critiche – ricordava bene il calamaio a bordo tavolo - di un’antica edizione di Romeo e Giulietta. Le mille note accompagnavano i versi di Shakespeare, calligrafia fine, elegante, talora spigolosa. La terza di copertina, in punta di pennello, riportava “Rosaleen Boyce”. Il prezioso volume regalò alla nipotina un 28 in Letteratura Inglese e qualche risposta in più.
Ma ora doveva sapere dove, quando, in quale punto, se ripido, se ciottoloso, in quale bosco inesplorato, se sognando il mare.
Forse la sera in cui era inciampata per la prima volta in una bottiglia di Whisky, in quel freddo super mercatino a due isolati dal fuoco che non sapeva scaldare più le sue notti solitarie. O quando la sua nipotina di 13 anni l’aveva abbracciata con le guance fradice per l’ultima volta prima di trasferirsi in Italia. O nella New Town di Edimburgo.

Rose amava farlo, si sedeva sotto le guglie più occidentali del Castello che sovrastava il grigio della città. Osservava le strade affollate che s’incrociavano ad angolo retto. Ognuna portava il nome di un principe o di una regina che sembravano farsi l’inchino in St. Andrew’s Square: un pomposo gran galà di uomini d’affari che per farsi posto in un marciapiede, in George Street, si urtavano, distrattamente. Era stato costruito di certo per gente più educata, più attenta.
Gli occhi verdi si facevano piccoli e fuligginosi alla vista di tanta indifferenza. Se li ricordava bene. L’aveva sempre pensato, la piccola Stella, che un giorno tutta quella polvere che si sollevava da Princess Street, che costeggiava palazzi in marmo, fontane rinascimentali, avrebbero soffocato Rose. Unico polmone per 460mila soldatini affannati, il grandissimo parco al centro della città, grandi querce e qualche cespuglio, non si sarebbe sprecato per una forestiera, doppia laurea in Lettere, che non riusciva a farsi spazio tra i passanti.
Tutta quella polvere, col passare degli anni e dei pub agli angoli di ogni strada principesca, solo nel nome e nella facciata, avrebbe reso cieca una donna di tanti sogni e qualche speranza.
Sarebbe un giorno rotolata dal Castello, non avrebbe dato la giusta precedenza agli incroci sempre intasati nella zona est, tutta uffici, grandi cancelli a sbarre e dipendenti schiavi del tempo.
Sarebbe stata travolta da automobili verdi e rosse, da taxi neri, stravolta da barboni per la strada con della carta arrotolata in mano, da ventiquattrore che si facevano piedino, da Trench che s’asciugavano, strusciando.
Sarebbe morta di speranze in un regno da cui riusciva ad assorbire poco calore, solo quello del caminetto elettrico in mezzo al suo salottino e di un gatto nero come il carbone che ardeva nel ricordo dei suoi che se n’erano andati troppo presto.

Quando scese dal taxi in Princess Street, Stella trovò la città immutata. Pochi passi, molte spallate e si fece spazio tra la gente fino allo zoo di Edimburgo stracolmo di ricordi. Solo la gabbia dei tigrotti appena nati separavano l’ormai nipote 22enne dall’immagine di Rose affamata di vita.

Aveva solo nove anni ma sentiva ancora la mano della zia che teneva stretta la sua, ritirata nell’impermeabile blu, mentre passavano di leone in leone. Intimorivano lei ma non Rose che camminava con passo veloce, andante, poi lento.
A sorreggere la piccolina c’erano solo la mano e gli occhi di Rose, rubati ad un mare che non aveva mai veduto.
Camminavano così, con gli stivali in gomma che s’incastravano nel fango. Camminavano sotto quel cielo d’Agosto che di estivo aveva solo il modo in cui le nuvole si strizzavano l’acqua di dosso e il mare che rovesciavano sulle pietre che conducevano alla parte esotica dello zoo. Tutto bestie feroci e sassi, le cui nervature ricordavano le pieghe che avrebbero arricciato la fronte di Rose. Ma lì quel giorno Rose c’era.

Se Rose fosse morta nell’East side di Edimburgo sarebbe stato solo molto tempo dopo quel giorno di quella magica estate del 1993.
Presero il primo treno del pomeriggio da Coatbridge.
La stazione sembrava fatta per le bambole, piccola, con la sala d’attesa che te li faceva dimenticare i costanti minuti di ritardo. Le seggiole su cui le gambe di Stella arrivavano a malapena erano morbide, un cuscino poggiato sopra in pandane con la carta da parati rossa.
I tabelloni scorrevano davanti a lei. Scritte bianche che si divertivano a rincorrersi man mano che un nuovo treno fischiava in stazione mentre le asticelle che le sorreggevano stavano salde. Cominciavano poi a rullare, molto più velocemente di come lei faceva, con la farina, per preparare l’"apple pie". Quel delizioso profumino inebriava la mente di viaggiatori seduti, schiena contro la parete, occhi fissi al tabellone. Ma i loro nasi sbirciavano nella cesta che Rose teneva in grembo.
L’odore caldo della mela appannava persino l’unica vetrata che dava sui binari. Erano solo due, una piccola stazione di un piccolo paesino con soli due treni, uno verso nord, per i più coraggiosi e l’altro verso sud. In quella sala d’attesa i colori e i sapori erano un caldo rifugio al vento che tirava e avrebbe condotto ognuno dei 60mila abitanti di quel paesino verso nuovi orizzonti. Il convoglio per Edimburgo arrivò alle 15 ma a quell’ora la giornata di Stella era cominciata già da almeno una decina di treni.

Fu il fischio del bollitore, proveniva dalla cucina al piano di sotto, o più insistentemente l’odore del pane appena sfornato, a risvegliare i sensi e trascinare Stella giù dal letto. Era sempre dura svincolarsi da quel morbido piumone tutto ricamato, come i bordi del cuscino e delle tendine del suo bellissimo baldacchino. Da lì si sentiva una principessina, ogni volta che doveva scostare le tendine per affacciarsi alla piccola finestra che spuntava, tra l’azzurro della carta da parati, sopra il comò in legno bianco abitato da tutto il passato di Zia Rose che racchiudeva in piccole cornici in stoffa.
Con un balzo scivolò nelle ciabatte di lana ma poi fece piano, con calma. Non per pigrizia ma amava immaginare Rose sfilare il burro dall’ultima credenza a destra, poco sopra i fornelli su cui poggiava sempre una teiera. La vedeva, mentre lo poggiava sul ripiano pieno di piatti, sporchi ma gustati, sempre, in compagnia, per poi spalmarlo su almeno una decina di fette tostate.
Nel frattempo Stella ne aveva di cose da fare. Contava i fiorellini blu sulla moquette bianca della scalinata, trenta gradini, un gran bel prato scosceso. Roba da giardinieri esperti quale si improvvisava.
La divertivano ancor di più il contrasto e l’armonia dei colori di quella casetta bianca. Il pavimento poteva essere una moquette unica, d'altronde a Rose piaceva camminare sul morbido, almeno in casa. Invece era un’alternanza di colori, di bicromie, che separavano una stanza dall’altra – non che fossero molte: camera da letto, scala, bagno, salottino e cucina – e allo stesso tempo creavano una sorta di continuità che ti facevano scivolare da un locale all’altro.
La stanzetta con il letto a baldacchino, l’unica al piano superiore, reparto notte, in cui Stella dormiva con zia Rose, era cosparsa di margheritine bianche su un prato celeste, carta da parati e pavimento. Da lì rose blu su un manto di neve bianca – nonostante Stella persistesse nel credersi giardiniere di quella scalinata – conducevano al piano terra dove fiori di ciliegio galleggiavano sulla moquette che pareva un oceano che inondava salottino, bagno e cucina.
Quella mattina, come tante altre, la piccola sognatrice contò i fiori, non tutti, poi i gradini, erano sempre trenta e poi riprendeva coi fiori di ciliegio.
Varcò la porta del soggiorno fatto di tre poltrone, una sfondata, per le altre ci stavano lavorando e un caminetto. Annotò i suoi calcoli sui fogli che aveva lasciati sparsi vicino al vecchio videoregistratore nel quale dimorava, fisso da almeno un paio di settimane, la videocassetta consumata dei Queen, le uniche immagini che quel piccolo televisore vedessero in realtà.
Rose amava la vita, non in scatola.
Fu solo quando posò la matita con l’omino in kilt che notò con stupore, ma già lo sapeva, la tavola imbandita: una tazza di tè fumante immersa in una montagna di toast straunti. Il tavolo per due, così viziato, non dava più quel senso di solitudine che una donna sotto i quaranta doveva provare. Rettangolare, impronta d’unto ovunque, sapeva tanto di Rose e Stella.
Si persero entrambe nel calore del loro "Earl Grey".

Si erano già fatte le dieci quando chiusero dietro di loro la porta in legno, quella che dava sulla strada. Due giri di chiave, la posta incastrata nella piccola fessura a lato della maniglia, la bottiglia di latte non arrivata in tempo, rimase lì dov’era, sul ciglio. Le due avventuriere, in impermeabile e scarponcini, non avevano tempo da perdere, avevano grandi progetti.
Quel giorno Rose, non amava farsi chiamare zia, c’era, e scoppiava di vita.

Lo zoo stava per chiudere e Stella, con il suo cappottino da turista milanese impreparata lasciò lo zoo. Non aveva trovato tracce della morte di Rose, se non polvere e fuliggine.
Entrò di fretta nel primo negozio di scarpe in Princess Street. «Un paio di scarponcini per favore», la commessa sorrise e glieli portò.
Prese a camminare o meglio a tuffarsi tra una pozzanghera e l’altra. Il cielo sembrava essersi acquietato, forse una pausa di riflessione come fece Stella seduta ai piedi di una statua.
«In quale punto, quale posto, della città, del cuore, aveva smesso di vivere?». Non trovava risposta.

Non vedeva la zia da almeno cinque anni da quel lontano 10 febbraio, quando la telefonata rimbombò nel cuore della vita di Stella. Quella notte non aveva dato una giusta sepoltura a Rose, l’aveva semplicemente domiciliata in un luogo senza indirizzo, lontano da Lomond Road, nella terra dei ricordi.
Con gli scarponcini ai piedi poteva rivivere le mille gite al lago, le corse su è giù per le colline punteggiate di rosso e bianco. Rose li aveva da sempre chiamati tulipani, è che non se ne intendeva proprio di fiori. Le camminate nei parchi in fondo alla città, sempre interrotti da fiumiciattoli a sorpresa che ti bagnavano fin su le ginocchia. Rose era la protagonista di quei romanzi d’avventura, se non l’autrice. Era viva.

Stella prese il treno nella direzione opposta di 13 anni prima, da Edimburgo fece ritorno alla piccola e accogliente Coatbridge. Si ricordava degli avventurieri in quella minuscola stazione e trovava ironico fosse lei a non partire ma tornare per una folle ricerca, quella che aveva letta negli occhi di quei 60mila uomini coraggiosi.

Il cielo era stellato e non era poi così tardi. Stella pensò di andare in riva al lago LockLomond.
Si sdraiò a naso all’in su in cerca di risposte. Sentiva l’odore dell’erba o forse era l’aria che sprigionava ozono dopo un tempo così funesto. Sulla pelle distillavano profumi di fiori selvatici che di giorno macchiavano il prato. Non aveva mai visto il lago mosso, semmai spumeggiante, contagiato dalla vivacità che Rose stappava nell’aria con le sue risate scroscianti. I pesci sembravano ridere di gusto, anche loro. Quante bollicine facevano.
Erano essenzialmente pesci rossi, ma parevano d’ogni colore quando il sole si faceva vedere, di rado, ma lo faceva. Rifletteva così tutti i colori di un arcobaleno che rendeva la pioggia meno uggiosa.
Il lago LockLomond: Un altro posto in cui Rose di certo non sapeva morire.

Stella si rimise il cappotto che aveva steso sotto di sé e s’incamminò. Prese Lomond alla larga. Si fece prima tutta la via parallela, quella a due isolati da casa, pensiero fuori tempo. Maledisse almeno cinque drogherie e un paio di bottiglie di whisky “Pure Scottish”. Quelle vetrine poco illuminate, solo dai lampioni che rendevano la via meno macabra, specchiavano una donna sola col suo impermeabile e il suo cappello e un sacchetto della spesa che custodiva tra le mani, in cerca di calore. Camminava.
Così fece Stella fino a Lomond Road. Si fermò al numero 12. Lo aveva tanto amato. Si avvicinò di tre gradini, fino al portoncino. Ritrovarlo fu come risentire Rose maledirlo ogni volta che le lasciava una scheggia tra le dita. Era di legno, scricchiolante, ancora pieno di schegge e un cartello poggiato, diceva “Affittasi”. Si era trasferita. Nessun punto, nessun luogo, nessun quando.
Rose non era morta per la polvere, non in riva al lago, né nella gabbia dei leoni. Non era affogata nell’alcol e poi caduta dai trenta gradini che le avevano sempre accarezzato i piedi.
Zia Rose si era tuffata nell’oceano blu della moquette del piano di sotto. Si era fatta trasportare dalle trenta rose azzurre della moquette candida come la neve. Si era poi imbarcata nel blu, profondo, di nuove avventure, su petali bianchi, di fiori di ciliegio.

L’ora si stava facendo davvero tarda, Stella tornò nella saletta d’attesa dei treni. Una donna teneva tra le braccia un cestino che sapeva di buono. I vetri appannati la separavano da un treno che non avrebbe preso. Nemmeno Zia Rose avrebbe più preso alcun treno, non lo faceva da almeno tre anni.
Una cosa avrebbe continuato a farla. Avrebbe fatto ridere nuovi pesci, in nuovi Oceani, su mille rose blu.
Arrivò l’intercity per Londra.
Stella lo preso, c’era una leggera brezza di mele nell’aria, poggiò i passi stanchi sul sedile di fronte e con un cesto tra le mani, sotto un cielo che entrambe avevano sempre immaginato brulicare di stelle, si addormentarono.

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