CAPITOLO I

ECCOLO A VOI : SENZA VOLTARSI - Carla Parodi

CAPITOLO I

Camminava, lentamente, per non inciampare nelle stringhe delle sue sneakers consumate. Non si sarebbe chinato di nuovo, non quel giorno.
Camminava, a testa bassa. Era buffa, piena zeppa di capelli crespi color corvino. Erano la sua benedizione. Gli permettevano, nel suo farsi avanti nella folla, di nascondere lineamenti troppo duri e una pelle ben lungi dai bei colori italiani. Nemmeno quando sorrideva schivava la colpa di non aver aderito, dieci anni prima, alla carnagione d’una elite che molto attenta all’altro, sapeva riconoscersi a pelle. Aveva dieci anni, ma quel 3 gennaio 2009 li portava proprio male.
Con incedere lento si scontrava nell’andirivieni dei viaggiatori. Con indifferenza, questi, inarrestabili, inseguendo treni che aspettavano non loro ma solo un orario, per una volta non lo schivavano.
A testa bassa Amir sorrideva, cento metri di felicità perché sfuggiva gli sguardi, a pregiudizi che gli sporcavano ancor di più i pori così indelicati. Nessun rosa pesca. Lui non sapeva arrossire ma solo annerire la bella Milano. Era un bambino, Senza colore.

Uomini robotici s’urtavano senza avvertire un tocco di pelle, il profumo, il fetore o l’aria che filtrava dai 23 binari della stazione Centrale.
Uomini, donne e bambini sorreggevano valigie stracolme di sé. Non si soffermavano, nemmeno quando si scontravano accidentalmente.
Nel poco spazio che concedevano ai propri passi, nella frenesia e nella forza che mettevano nel tenersi il proprio bagaglio, capitava che ragazzi in jeans e ragazze in minigonna intrecciassero le mani senza nulla sentire: un assaggio distratto della superficie altrui che non regalava sapori a palati troppo sazi. Guardarsi era troppo e sfiorarsi era nulla. Non per l’improvviso accarezzarsi di labbra che fece emozionare due innamorati, al primo binario.
Loro, fermi su una banchina all’altezza del primo vagone, erano solo un attimo di sollievo alla pungente freddezza dei passanti in corsa. Il presente non era affar loro, in nessun istante.
Quel bacio, una carezza, erano una sorta di tregua a quella che pareva una marcia di soldati a Milano, in una stazione che ne rispecchiava il cuore. Pulsante di rumori assordanti, gremita di macchine, bulloni, di orologi sincroni, di uomini in divisa e barboni che si trinceravano negli antri più nascosti.
L’armistizio lo siglavano un bacio e una panchina, venti binari più in là, da cui pendevano le stringhe annerite di Amir. Davano un ritmo diverso alla caccia al treno e un po’ di movimento alla stasi di un bambino accasciato, immobile nel suo mezzo metro quadrato dall’ odore della Libertà.
Una ragazzina rannicchiata in un angolo, grandi occhi verdi, osservava e vedeva la povertà della sua Milano.
Marta, che si era fatta piccola contro una colonna, seguiva ipnotizzata il movimento di un paio di stringhe che pendevano da una panca poco distante. Le ricordavano un vecchio pendolo. L’aiutava a stare a galla quando, come in quel momento, chiedeva ai propri pensieri il solo oscillare con andamento ipnotico per non visualizzare immagini appena girate che la ferivano.
Un uomo al binario 18 era inciampato nelle stringhe nere di Amir. Si era poi rialzato, lentamente. Non aveva scorto il bimbo Senza colore ma non gli erano sfuggite, mentre si riassettava, le lunghe gambe acerbe e slanciate che avevano catturato un’ attenzione che quel tipo poco prima sembrava non possedere. Con la ventiquattrore in mano annusò i polpacci di Marta come un lupo, la scrutò con uno sguardo affamato e quando ebbe finito si passò la lingua sulle labbra fissando occhi che si eran fatti vitrei.
Nessun contatto, una violenza carnale senza tatto aveva reso piccola, Senza nome, Senza volto, Senza colore una ragazzina intenta a chiudere il lucchetto della valigia. I movimenti lenti di lui, la saliva che gli scivolava sul doppiopetto e l’occhiolino che seppe trovare il tempo di lanciarle la imprigionarono in un corpo che non amava.
Si rannicchiò a due passi dalla frenesia, contro del cemento, a due passi da un paio di scarpe al binario 21, slacciate, così sporche di fango quanto lei, a due passi da un anziano che livido in volto pareva gentile, ed immobile. Tutto questo rassicurava Marta contro quella colonna e lì si perse nei pensieri.
Amir si era fatto spazio accanto ad un uomo rintanato in un giaccone verde di cui notò subito le mani bianche. Poi con più attenzione scavò, nelle vene di un viola agghiacciante, una quasi assenza di sangue che percorreva lungo dita affilate e rugose. I calli sulle nocche ansimavano una vita affannosa ma a togliere il respiro era il modo rassegnato con cui le mani gli pendevano tra le gambe, scarne, avvolte da un completo grigio, elegante.
Amir, mani color caffè, quello che a lui toccava pagare 2 euro per una colpa che non conosceva, cominciò a contare. Lui e l’anziano al suo fianco, assieme, forse, arrivavano a più di novant’anni. Amava quel gioco solo perché era l’unico che gli permetteva di vedersi in un futuro.
Prese a fissare un treno fermo che così sarebbe rimasto. Quella stasi, l’assenza di direzione, gli rubarono l’illusione di un attimo, di un futuro, la libertà di un viaggio. I vagoni erano immobili da un tempo impreciso, da quando si specchiavano in un uomo assente, incappottato, in attesa.
Fu allora che Amir vide una ragazzina esile, docile contro una parete. I suoi occhi erano gli unici che sentiva il desiderio di scorgere, erano bassi e lei era bianca. Ma di un bianco candido, pensò subito. Le ricordò la neve che aveva visto scendere al campo in via Rubattino. Non c’era disprezzo in quegli occhi verdi e lui tornò un ragazzino di dieci anni.
Non abbassò più lo sguardo, nemmeno lei lo fece. Arrossì. Amir sorrise alla dolce sconosciuta.
Due gocce nere su una pelle color sabbia la guardavano negli occhi con un’innocenza che Marta sentiva persa. Un’ora prima poggiata sulla sua valigia aveva temuto un silente delitto. Ora poggiata contro una colonna si riscopriva raggiante, sognante, Marta, imprigionata da un’apparenza che a volte svaniva, da un’indifferenza che non tutti si portavano dietro come fiore all’occhielllo.

Con le mani in tasca Amir si voltò verso dita lunghe e sottili che non era riuscito a scaldare, quelle che si allungarono per raccogliere una foto sbiadita. L’uomo abbassò lo sguardo. Il bambino di dieci anni lasciò al treno immobile di continuare a guardare e parlare con una vita che lenta scorreva in quelle dita ora sporche. Amir non aveva saputo stringergliele mentre una giovane fanciulla aveva saputo rincuorare entrambi con uno sorriso caldo, uno sguardo di una gentilezza inaspettata, «Immeritata».
Amir non aveva più tempo, la madre lo aspettava al campo per pranzo.
Il treno era fermo, il futuro irraggiungibile. Aveva solo una madre e forse un piatto di pasta bollente che l’aspettava e in fondo aveva soli dieci anni. Lasciò il peso dei novanta sulla panca, si allacciò le scarpe e si mise a correre mentre il suo volto riprendeva colore.
Il Comune aveva promesso che avrebbero riallacciato l’elettricità anche in via Idro. Avevano festeggiato fino a tardi, cantato una musica che aveva perso le note sotto il rumore violento delle randellate di quelli che aveva sentito denominare, dai suoi amici che stavano in via Padova al 23, “polizia razziale”.
Percorse viale Doria tutta d’un fiato per sbucare in piazzale Loreto.
Adorava le vie che si intersecavano, come i fiumi sui libri di Geografia, che sfociavano sempre in qualche mare. Era la sua materia preferita da sempre, in tutte le scuole che aveva cambiato rimaneva una costante. Seguire col ditino il Tigri, l’Eufrate e vedere dove si sarebbero incrociati.
Appena poi alzava gli occhi dai libri, primo banco quinta B, tornava a vedere sguardi di bambini impauriti che gli giravano sempre alla larga e si sentiva chiamare zingaro o nomade.
Non vedeva l’ora che tornassero i suoi due compagni che dovevano avere una brutta malattia perché da quando era arrivato alla “Scuola Elementare Gonzaga” un anno prima non aveva ancora potuto parlare con loro.
Come i fiumi sfociavano in mille mari diversi così un sacco di strade piene di negozi confluivano in quella piazza enorme. Amir amava il negozio sulla destra della piazza, quello nuovo della Nike, c’era uno zainetto che avrebbe tanto voluto.
Era di fretta, ma entrò nuovamente e si fermò davanti al suo zaino preferito e fu lì che tornò da bambino italiano a rom in men che non si dica. Una donna anziana tirò la nipotina a sé e le spiegò che come non si accettano caramelle dagli sconosciuti così non bisogna avvicinarsi a quegli zingari pieni di pidocchi che ci invadono la città. Quella era anche la città di Amir, da dieci anni, e almeno un po’ a lui piaceva.
Uscì non a mani vuote come sperava, ma con uno zaino d’insulti che gli gravavano sulla schiena. Prese via Padova e fu allora che ebbe realmente paura, si sentì in mezzo alla savana. Un corteo di poliziotti trattavano un gruppo di egiziani come fossero animali da domare. Ringraziò il cielo che fossero nella sua città da così poco da non comprendere mezza parola di quegli insulti, ma poi passarono alle mani, solo perché non capivano.
Amir si nascose nell’atrio di una palazzina al numero 23. Era stretta e piena di finestre. Si acquattò dietro una scalinata che portava al primo piano. Rimase lì un tempo incalcolabile perché la paura che provava ampliava i suoni o forse era solo l’eco del sottoscala.
Il tempo scorreva eterno. Si concentrò sulla parete sulla sua destra e prese a scrostarla, l’intonaco veniva via che era una meraviglia. Anche a lui piaceva fare giochi da bambini. Ad un certo punto i rumori cessarono, le sue mani si arrestarono e s’impossessò degli occhi vitrei della ragazza sconosciuta alla Stazione quando vide una scritta: “Sporchi Ebrei”. La rilesse più volte perché era sotto tre strati dì intonaco ed era leggermente sbiadita. No, non c’era scritto Rom o zingari come era abituato ormai, quasi fosse un gioco, un passatempo per chi si annoiava, no diceva ebrei. Lui che credeva di essere l’unico sporco della città.
Ma quanto tempo prima avevano scritto quelle parole che nemmeno il tempo sembrava cancellare? Improvvisamente si ricordò la lezione di Storia che gli aveva regalato un buono in pagella. Si chiamavano ebrei, il libro non diceva che erano sporchi, solo che erano morti.

*
«Era di nuovo una giornata di sole e si poteva giocare. Daniele era guarito e la squadra era al completo. Per di più potevamo giocare nella sua zona invece che nel campetto di scuola.
Non so perché adorassimo tanto quella piazza, così vasta, circondata da imponenti palazzi. Al centro solo un piccolo benzinaio, una casa con un muro altissimo che diceva “AVE DUCE” e il nostro immenso campo da calcetto improvvisato. Ce lo costruivamo con la fantasia e cercavamo di stare il più lontano possibile da quel Dino che proteggeva la veranda del suo bar coi denti. Sì, qualcuno si lamentava, ma poi dicevano «son bambini».
Da porta Venezia salimmo tutti sul tram. Lo aspettammo mezz’oretta perché dovevamo prendere non solo quello giusto che conduceva in piazzale Loreto ma quello con il conducente dal berretto verde. Era il signor Franco, il padre di Luca, si saliva gratis.
Quando il tram si fermò sulle rotaie lungo il lato destro della piazza il signor Franco mi tirò a sé e disse, tutto d’un fiato: «Non temere, sul mio tram puoi salire quando vuoi». Risposi con un frettoloso «grazie lo so» ma gli occhi del nostro condottiero si fecero gravi.
Non capivo e non capii quel gesto per tutte le tre ore e passa che volarono mentre ci si passava la palla, s’improvvisavano reti nei portoni delle case rinascimentali. I passanti erano pochi, ne centrammo solo un paio ma l’innocenza dei nostri dieci anni faceva sempre tenerezza alle donne che, con l’ombrellino su una mano, con l’altra strattonavano il gentiluomo al loro fianco che rosso in faccia tratteneva le urla contro quel Daniele che portava in una piazza così ordinata tutto quel caos.
Le sette arrivarono troppo presto come sempre ma con una corsetta ce l’avrei fatta a raggiungere casa per la cena che veniva servita di lì a 15 minuti. Imboccai via Padova, abitavo al 23. Ci arrivai in anticipo ma la mia minestra freddò prima che mi venisse servita. Ero immobile, non capivo, cominciarono a risuonarmi in testa le parole di Ser Franco. Il nero della vernice gocciolava ancora ma la scritta non si cancellava: “Sporchi Ebrei”.
Salii lentamente le scale, questa volta guardandomi le spalle, entrai a casa e da quel momento qualcuno si era portato via il calore del salotto, il sapore della minestra freddata e i sorrisi dal secondo piano di Via Padova al 23, Famiglia Yehova».

*
Quando non sentì più rumori Amir uscì dal sottoscala e appena fu per strada salutò il suo amico che abitava al secondo piano. All’inizio, quando aveva visto i disordini e sentito la polizia, aveva pensato di salire da lui ma la paura e la scritta avevano trasformato le sue sneakers in piombo. Sorrise a Samuel, ma solo col viso. Da così lontano il suo amico più piccolo di un anno non poteva notare la paura che nuotava sulle sue guance.
Si allacciò nuovamente le stringhe, abbassò la testa di nuovo perché il mondo gli parve improvvisamente pesante.
Entrò nel bar di Chang, si sedette ad un tavolo, dimentico della pasta bollente che non sperava più di assaporare. Il locale era vuoto e Chang tra l’odore del fritto si fece spazio vicino ad Amir. Gli disse che in via Idro ancora non c’era la corrente e che dopo i casini della sera prima c’erano uomini in divisa, armati, che giravano tra le roulotte.
Fu esattamente quello che il bambino Senza colore trovò quando arrivò a casa.
Le armi non lo spaventavano ma non sopportava che casa sua fosse circondata da occhi che lo rimpicciolivano, che gli toglievano la possibilità di essere italiano. Lui amava i rom, amava pure la biondina che non solo era Italiana quanto lui ma aveva la fortuna di portarne i colori. Dividevano la merenda e lui amava Laura bianca come la neve.
Amir non raccontò della sua fuga in stazione, nemmeno del sottoscala, salutò la madre che aveva appena finito di parlare con quell’uomo in divisa. Si sedette a tavola, tonno in scatola e «Amir, domani dì ai tuoi amici di non cantare più, è meglio così». Sorrise alla madre, annuì, pensò agli “Sporchi Ebrei”, alla storia che si ripete, si lavò tre volte quella sera e poi preferì sognare Laura. Forse lei poteva ancora cantare.

*
«Pioveva a dirotto quel giorno perciò giocavo con Daniele e Luca nel salone della ricreazione. Ero sudato come sempre quando rientrai in aula e trovai le luci della classe spente. «No, il buio non si era mangiato solo casa mia ma anche la mia classe», fu un pensiero fugace cui seguì un coro di «Auguri Giona».
Era il 18 settembre, avevo undici anni e la luce delle candeline. Avevo così tanti desideri da esprimere che la prima candelina si spense da sola, poi soffiai con tutto il fiato che avevo in corpo.
Ero contento e quella sensazione me la tenni fino a sera perché quelle candeline erano i miei desideri e avevo soffiato io su di loro e non il vento che entrò gelido dal portone d’ingresso. Faceva talmente freddo da far mettere il maglione alle femminucce e a Sara dai capelli morbidi come la seta prestai la mia maglia.
Era la mia vicina di banco. Mi piaceva vederla arrivare al mattino, mettersi il grembiulino e sorridere con le altre femminucce. Mi piaceva.
Da quella folata di vento Sara divenne solo un ricordo, e io solo una maglia abbandonata su un banco da cui un uomo in divisa dopo aver parlato con la maestra, averle mostrato un foglio disse, quasi fosse un ordine, Giona Yehova. Mi alzai, e preferisco ricordarmi che fu il vento a spazzarmi via dalla scuola in via Ruffini e condurmi nella mia casa non più solo buia, pure sporca.
Feci il bagno, mi lavai il braccio da farmi venire la pelle a pieghe. Preferivo vedere le mani grinzose che il livido che quel tal Commissario Luigi Spartani mi aveva regalato. La sera fu più dura soffiare sulle candeline in salotto, fu un gesto rapido, senza sogni ma non indolore.
Avevo undici anni e l’ora della ricreazione me la potevo sognare, così feci non appena mi addormentai».

*
Amir ancora sognava. Forse Laura, e la stringeva forte a sé perché era dalle vacanze di Natale che non la vedeva. Forse prima di addormentarsi senza le canzoni che tanto adorava pensava al giorno dopo, ci riusciva ancora nonostante gli sguardi taglienti delle autorità a pochi centimetri da lui. Ma il giorno dopo che doveva essere quello festoso della ripresa delle lezioni fu molto meno gioioso di quanto sognasse. Si stringeva il petto, il sorriso gli svanì all’istante quando aprì gli occhi e scoprì che Laura s’era trasformata in un topo. Non urlò per lo schifo ma perché era solo un altro sogno infranto.
La madre anche quando stavano in via Rubattino e c’era l’elettricità non è che fosse proprio nota per le sue doti culinarie. La pasta era sempre scotta, pure il riso e la minestra troppo salata perciò l’odore di bruciato che sentiva non lo stupiva. Non prima di ricordarsi che il fornelletto senza elettricità non andava.
Corse fuori dalla roulotte, uomini in divisa stavano dando fuoco alla montagna di rifiuti a venti metri da lui. Immense gru sollevavano case sfollate. Era l’ennesimo sfratto.
Era la sua terra quella. Si era fatto qualche amico nell’ultimo anno. Sentiva un dolore al cuore così forte da cadere sulle ginocchia. La madre accorse in suo aiuto, lo aiutò a rialzarsi ma nulla poté contro la terra che Amir sentiva mancarsi sotto i piedi. Era la sua da almeno 365 notti passate sotto lo stesso tetto. Era un’eternità per lui perciò sentiva un legame con quella terra forse un po’ dissestata e disastrata, ma non più di tanti suoi compagni che si perdevano le h o le doppie per strada durante i compiti. Tanto che Amir quell’anno non aveva festeggiato il Natale ma l’anno 1 dopo Rubattino, cui doveva seguire l’anno 2, per forza.
La Storia gli aveva insegnato che la vita segue un ordine cronologico, il cambio delle stagioni e delle lune piene e queste vanno segnate nei calendari. E non è che si può fermare o invertire il tempo.
Lui aveva cominciato a segnare la sua storia in un’agenda perché quel giorno lontano, a scuola, aveva sentito di non possederne una. Aspettava il 2 d. Rubattino, non certo lo zero dopo Idro. Sapeva di avere 10 anni ma Milano gliene assegnava di nuovo zero.
Guardava i poliziotti che arrivarono come fiumi e sapeva sarebbero sfociati nel suo campo successivo.
Rassegnato li guardava con aria interrogativa mentre gli prendevano le impronte digitali, a lui che una storia non ce l’aveva più. Nessuno rispose alle domande della madre disperata, erano loro, quelli armati, a farne a raffica e a perquisire il niente. Perché non possedevano nulla se non quella poca terra cui, così «nomadi» e «zingari», si eran legati. Il bambino Senza colore prese la sua agendina e la consegnò all’agente. Era tutto ciò che aveva e che ora valeva meno dei due euro della sua pelle color caffè.
Non pianse, e non corse. Camminò fino al Gonzaga, era iniziata la seconda ora e i suoi compagni di banco erano ancora malati. Si dispiacque ma tacque.
Pensò agli unici compagni di panca che avesse mai avuto. Ripensò alle mani rugose di un uomo e agli occhi verdi di una ragazza in stazione. Sperò che si fosse alzata di lì, che avesse occupato lo spazio vuoto che aveva lasciato a fianco dell’uomo con il cappotto verde. Forse Occhi Verdi poteva dargli quel calore che a lui quel 7 gennaio mancava. Se li immaginava chiacchierare perché anche la sua panca calda d’amore non poteva essersi sfollata.
La campanella dell’intervallo piccolo risuonò nelle orecchie di tutti gli alunni frenetici della quinta C.
Amir si avvicinò alla maestra, ma solo dopo aver mangiato un Pavesino dal pacchetto di Laura. Lei gli sorrise. La sua Occhi Verdi ce l’aveva in classe, ogni giorno e aveva un nome. Per un attimo si scostò il ciuffo di capelli che gli copriva il volto e tornò un bambino, Italiano, come la sua Laura. Prese a fare domande alla maestra, se nel calendario esistesse l’anno 2 dopo Cristo perché ne avevano parlato ma lui coi suoi occhi aveva visto solo l’1 d.C.
La maestra Donatella con molta pazienza e compassione per quel bimbo dagli occhi persi gli mostrò tutti i primi cento anni sul calendario che teneva nell’armadietto. Lui voleva solo sapere o sentiva un profondo bisogno di toccare con mano che qualcuno fosse arrivato all’anno 2, cosa che a lui era stata nuovamente negata.
Fu in quel momento che vide la madre sulla soglia della porta d’ingresso di scuola. Donatella ed Amir le si avvicinarono. La madre spiegò che il Gonzaga era troppo lontano da via Triboniano 110, il nuovo campo in cui erano stati trasferiti con poca cortesia. Amir prese un foglio e si segnò primo giorno avanti Triboniano, sperando che gli altri sarebbero stati migliori.
In un anno aveva stretto amicizia solo con Laura e la maestra. Amir tirò fuori dieci centesimi, corse fuori da scuola allarmando per due minuti la maestra Donatella. Di lì a poco tornò correndo, andò dall’italiana bianca come la neve, e le regalò una liquirizia, con le dita ancora intrise d’inchiostro. Lei senza distinguere le dita dalla liquirizia la fece poggiare sul banco dal suo piccolo amico Rom, la divise col taglierino e gliene porse metà. Quel gesto che si portò nel nuovo campo a Nord di Milano assieme alle lacrime di Laura furono l’ unico sprazzo di umanità in quello sfratto, in quella vita, la sua che gli pareva una liquirizia arrotolata che ritornava sempre su se stessa e che uomini in divisa si prendevano la briga di tagliare con molto meno cuore. E Amir, Senza colore, lì, su una terra che assaggiò e sputò, si chiese perché non usassero la pistola, il segno rimaneva uguale, una vita si spegneva ed un'altra ricominciava.

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