Perle

DALLA RIVISTA GIOIA - 2010 - pag 80-84
ps.essendo un pdf non sono riuscita a impaginare bene e mettere le fotografie ma fermatevi a lggere perfavore

Noi non stiamo più
nel campo rom.I Petre vengono dalla Romania, ma la vita dei nomadi
l’hanno conosciuta qui, insieme agli sgomberi.
Ora sono tornati a stare in una casa vera. Sperando
che il loro futuro somigli a questo presente
di Ilaria Solari - foto Alberto Dedé

Si chiama “programma di accompagnamento all’autonomia”: è il percorso intrapreso da alcune famiglie rom milanesi, come i Petre (qui in diversi momenti della giornata), dopo lo sgombero il novembre scorso, del campo abusivo del Rubattino. È sostenuto da borse di studio per i bambini e borse lavoro per gli adulti finanziate da fondi raccolti dalla Comunità di Sant’Egidio e da cittadini del quartiere.
Poche centinaia di persone, genitori delle scuole, abi¬tanti del quartiere che nel momento del bisogno han¬no ospitato gli sfollati, maestre straordinarie, volonta¬ri instancabili, che hanno animato raccolte di fondi e iniziative di finanziamento come la vendita di un vino definito “rosso di origine migrante” (vino.rom.rubatti¬no@gmail.com). E poi corsi di italiano per gli adulti, doposcuola e spazi gioco per i bambini. Un miracolo
forse ancora troppo piccolo perché valga la pena di citarlo accanto alle notizie di cronaca, agli esodi forzati dalla Francia, ai vertici sull’emergenza nomadi. «Dei tre-centoche erano qui l’anno scorso», spiega ElisaGiunipero,volontariadiSant’Egidio «nelnuovocampoabusivodelRubattino, sotto i capannoni dismessi, sono rimasti in duecento. Dei cento che mancano al-l’appello, però, sono un’ottantina quelli che abbiamo guidato verso soluzioni re-sidenzialieimpieghi,siapureprecari»(pro¬prio mentre scriviamo è in corso l’ennesimo sgombero, che metterà a rischio l’attuazione di tali progetti e la frequenza a scuola dei bambini, ndr).

Ma l’avventura italiana di Mirela e Con-stantin comincia molto prima del Rubat-tino, in un’altra casa. Quella che si intrav-vede sullo sfondo della foto consumata: è la casa del padre di Constantin, nella pro-vincia depressa e rurale dell’Oltenia, tre stanze in tutto in cui vivevano in otto. Come molti rom sedentarizzati sotto il regime di Ceausescu, i Petre facevano gli agricoltori: «Vite e granturco», specifica Constantin «non è una vita dura, forse per uno di città. Ma niente soldi, niente di niente». Constantin era anche murato¬re, «ho costruito le case a tutti laggiù. Una volta sono andato a fare un lavoro a casa sua», lo sguardo è una fessura scura che accarezza la moglie. «Continuava a guar-darmi. Ho fatto in modo di andare a trovarla spesso». Negli occhi di Mirela finalmente si allarga una luce gialla. E il primo sorriso: «Eri tu che guardavi me». Un matrimonio vero non cel’hanno avu¬to. «Nessun vestito bianco, feste o balli. Ci siamo sposati solo civilmente». A Milano c’è arrivato per primo Constan¬tin, seguendo il cognato, che è pastore pentecostale ma fa anche il muratore. Niente roulotte e vita randagia: come per molti rom romeni, la prima esperienza con i campi nomadi è stata in Italia. In¬somma, una storia di ordinaria immigra¬zione: all’inizio l’ospitalità in una parroc¬chia, in cambio di lavori e riparazioni. Poi è stata la volta di un egiziano a cui, per un letto in un appartamento affollato, Con-stantin pagava 200 euro al mese. Ma Mi¬rela soffriva di malinconia e decise di rag-giungerlo con Loris, il più piccolo. «Il grande ha sofferto così tanto di solitudine in Romania che è rimasto piccolino», ri¬corda accarezzando i capelli cortissimi di Elvis.Proprio allora Constantin aveva per-duto alloggio e lavoro. Si rifugiarono nel campo di via Bacula, dove già si trovava¬no amici e parenti. «Quando sono arriva¬ta era primavera, Mi¬
lano era bellissima»,
.
ricorda Mirela «tutto
¬
mi sembrava caldo e
pulito, anche il cam-

po». La caccia al no¬made ingaggiata dal Comune li ha sospinti da un campo insediamento

all’altro. Fino al Rubattino: il campo pia¬no piano si è gonfiato, hanno tagliato l’ac¬qua ed è stato l’inferno. «Che dovevamo fare?», mormora Constantin indicando la tv sintonizzata su un canale romeno «mi¬gliaia di medici lasciano il Paese, con lo stipendio statale non campano. Per noi era peggio».

Ci sono due televisioni in casa Petre, una per stanza, entrambe accese. L’apparta¬mento assomiglia a tanti altri. Pulito, or¬dinato. Con una differenza, che salta agli occhi dopo un po’: in giro manca quella nebulosadioggettiprovvisoriamentefuo-riposto:chiavi,giornali,cianfrusaglie.Sul tavolo tondo ci sono soltanto un melone a fette e dei dolci, in segno di benvenuto. Il resto è stivato con la meticolosità di chi si dispone a partire da un momento all’al¬tro. Elvis ascolta le canzoni rom scaricate dal computer e inserisce nel lettore un dvd con le foto di classe: «Guarda: qui faceva¬mo la terra mossa dal vento», dice con il faccino serio,indicando tanti bambini che agitano le braccia. E in quella che fate? «Non vedi? Cantiamo in inglese». Mostra con un filo d’orgoglio la strepitosa pagella. Sono bravi ragazzi, fanno i compiti spontaneamente e non hanno perso nemmeno un giorno di scuola nemmeno nell’ultimo sgom


bero, quando dormirono due notti in un orto nella bruma di novembre e poi con la mamma in un dormitorio pubblico, mentre papà si rifugiava dove poteva. «La scuola dell’obbligo e l’ufficio vaccinazio-ni sono le uniche istituzioni che ricono-scono queste persone», spiega Stefano Pasta di Sant’Egidio«che sono comunque cittadini comunitari. Eppure, senza resi-denza, ogni altro diritto è loro precluso». Forse per questo, anche ora che abitano lontano, si consumano le scarpe per rag-giungere puntuali la scuola del Rubattino. «Quando Constantin non deve lavorare, ci andiamo insieme», raccontaMirela .Al-trimenti esce alle sei di mattina. «Papà colora i muri, costruisce le case di Mila-no», spiega Loris. Anche Mirela è in atte-sa di un lavoro. Intanto confessa che si sente sola. Il momento più bello della gior¬nata è il pomeriggio, quando rivede i suoi bimbi. Nel resto del tempo? Abbassa gli occhi, «se siamo in difficoltà chiedo an¬cora l’elemosina, ma solo a chi conosco». A quelli che definisce gli “italiani bravi”. «Comela signora vestita diblu che cipor¬ta i soldi ai giardini», le fa eco Elvis. Mi¬rela ricorda il senso di vergogna delle pri¬me volte, «non passa mai, ma poi impari a non pensare a niente». Tutto il resto la incupisce solo un po’, come i commenti acidi della farmacista da cui acquista una confezione di aspirine perché è raffredda¬ta. O il costante sguardo sospetto de com¬messi quando fa la spesa al supermercato.
Il pomeriggio i bambini scendono da so¬li ai giardini sotto casa. Mirela non si fida a mandarli in giro da soli, ma ai giardini sì, «lì sono tutti amici», dice Constantin. I ragazzini, da queste parti, vengono da ogni angolo del mondo, e che tu sia rom è un dettaglio irrilevante. «Sei da Milano?»,chiede a tutti Elvis. Qual¬cuno gli risponde che ormai anche lui è “da Milano”.«Non ancora» risponde con¬vinto, agitando la testa «solo quando avrò il portafogli da Milano». «Vuoi dire il pas¬saporto, Elvis?». «Sì, anche quello».
Ancora Elvis e Loris, i due bimbi rom iscritti a una scuola elementare del Rubattino: impegnati coi compiti delle vacanze (in alto a sinistra); in giro col papà (sopra) e con la mamma Mirela (accanto) fuori dal super dove fanno la spesa.
Per prudenza ai Petre è stato sconsi¬gliato di invitare troppa gente a casa. i momenti di socialità si sono finora consumati al campo del Rubattino. Non sarà più così, dopo questo nuovo sgombero, il numero 125 dall’inizio dell’anno, secondo il bollettino del Co-mune. «Ci i ritrovavamo ogni domeni¬ca a cucinare sulla griglia», gli occhi di Mirela diventano lucidi. «Ogni volta che li vedo, mi chiedo come è possibi¬le vivere così». È il suo piccolo film del-l’orrore, un passato inarchiviabile di notti all’addiaccio, topi, gelo. E il fu-turo? A lei basterebbe che assomiglias¬se al presente. Se proprio deve esprime¬re un desiderio, vorrebbe «una cucina appena più grande, da poterci cucinare con mia cognata e le amiche». Magari il sarmale, gli involtini di verza in cui si dice sia maestra, «da servire, come fate voi, con la polenta».


MA IN EUROPA VINCE LA LINEA DURA


Sono quasi 900 i rom di origine bulgara e romena rimpatriati forzatamente dalla Francia, nonostante i richiami di Onu e Commissione europea, perché considerati una “minaccia per l’ordine pubblico”. E mentre il partito di estrema destra ungherese Jobbik avanza la proposta di destinare le comunità rom del Paese in “campi chiusi”, anche in Italia il clima si surriscalda: il ministro dell’Interno Maroni promette di essere ancora più duro di Sarkozy e gli amministratori delle grandi città perpetrano piani di sgombero sistematico di ogni insediamento abusivo. A Roma, dove una curiosa psicosi collettiva segnala i primi presunti avvistamenti di “macchine rom con targhe francesi”, il sindaco Alemanno ha appena smantellato il campo abusivo di Quartaccio. A Milano, ancora al Rubattino, il vicesindaco De Corato ha attuato il 125esimo sgombero dell’anno, mentre l’unico campo regolare della città, in via Triboniano, entro ottobre sarà smantellato per fare spazio alla strada che collegherà la città all’area dove si terrà Expo 2015.

Commenti