SAPOR DI VANIGLIA



La sera l’aria si fece gelida.
Martina si lasciava accarezzare i capelli da un freddo che non sentiva. Coi capelli arricciati si fingeva più forte. Aveva carattere, o solo speranze.
Camminava lenta nonostante le Nike. Cosa possono un paio di scarpe da corsa contro gambe stanche e insicure. Amava cospargerle di borotalco, d’un profumo che sapeva di dolce. Quella mattina fece così. Incipriata credette di essere la star sul palco, che avrebbe fatto piroette leggere tra le braccia di un uomo che la voleva. Il suo bacio dolce se lo aspettava alla vaniglia.

La polvere magica all’altezza delle ginocchia si esaurì. Un attimo di panico fece tremare gli occhi blu di Martina, quasi racchiudessero un mare in tempesta. Fu un attimo. Poi se ne ricordò. Le labbra tornarono rosso vivo, tornarono sensuali mentre ricordò le parole di Lorenzo. Diceva sempre – o forse fu solo quella volta – che gambe così belle non ne aveva vedute nemmeno al cinema. La dolcezza del ricordo, di quelle parole lontane fecero il resto.
Martina tutta vaniglia uscì per andare all’ennesimo appuntamento. Non li contava più, porta male. Era solo l’ennesimo, il prossimo sarebbe stato quello fortunato. Camminava, lenta, mentre i jeans tradivano l’energia che l’avevano sospinta fin lì, fino all’incontro, con Lorenzo. Non era stato altro, ne più ne meno che uno scontro, ancora, almeno per lei, Martina. Lui se lo immaginava illeso, nemmeno un graffio anzi lo sapeva illeso perché non riusciva più nemmeno a visualizzarlo, svanito nel gelo di chissà quanti inverni fa.
Dalle tasche dei jeans slavati cadde una monetina. Il viso candido riprese un po’ di colore, forse fu lo sforzo, di piegarsi, nuovamente; leggermente scavati gli zigomi, quali sacche vuote d’amore, accennarono un sorriso alla vista di quel penny. Doveva essersi incastrato nelle trame di qualche suo viaggio, in fondo alle tasche che non svuotava mai, a quei jeans stanchi di tutto, di lei soprattutto. Sorrise al penny, a tutti i pensieri che di un uomo non aveva mai conosciuti
Quando si rialzò dovette fare i conti, poca cosa era solo un penny, con la neve che non aveva sentito scendere. Ributtò il penny sul manto candido e solo in quel momento si scrollò il cappottino nero che le aderiva i fianchi.
Era un tempo da lupi. Ma che paura potevano farle ora che le zanne di Lorenzo avevano affondato, più volte sussurrato, fiato sul suo collo, di non amarla. Aveva fatto a brandelli il suo dolcevita, parole taglienti l’avevano azzannato.
Era del colore del cielo, l’ avevano comprato assieme a Porto Venere due inverni fa.
Credeva, lei, che con tutto quel firmamento addosso qualcuno si premurasse ancora di firmare la sua stella e quella del suo amore. Lei lo avrebbe fatto, con una matita in grafite, indelebile, preziosa.
Ora il cielo era caduto, al suo posto la neve. Non si vergognavano le stelle? Era chiaro si fossero nascoste. Che fossero morte? Quelle di Lorenzo no, mai. Cadevano una volta l’anno, tutti musi all’aria, per vedere i sogni realizzarsi. Quale vergogna per Lorenzo.
Martina, seduta sulla prima panca che trovò, a gambe incrociate, occhi fissi nel vuoto, si accoccolò. Non più nel suo maglioncino senza sogni ma in un pensiero.
Sfogliò l’agenda. Lo sapeva era il 17. Come poteva essere stata così stupida. Ancora una volta non aveva saputo pensare a lui. Non che Lorenzo fosse superstizioso, ma era la Serata Poker! Perché non l’aveva capito, non aveva pensato all’agitazione che si muoveva nei suoi pensieri e nelle sue parole quando risuonarono confuse in note di addio.
Era una questione importane, «da uomini», lo sapeva, quante volte gliel’aveva detto, «scelte difficili, prendere o lasciare». E Lui quel pomeriggio aveva scelto di lasciare, lei.
«Chissà quanto dovesse essergli costato», pensò.
Nemmeno un penny.
La neve attutiva i colpi di quell’ addio, urlato o sussurrato. Lorenzo si era avvicinato alle gambe che tanto amava, le aveva sfiorate, annusate, come un cane, come un lupo. Si portò col fiato pesante alle orecchie di Martina, vibravano del suono delle libellule che portava ai lobi. Portavan fortuna. E lì lo udì. Un suono macabro che si faceva sempre più vicino. Con le mani impegnate a legarsi i capelli e con fare sicuro di chi non chiede più un’altra occasione, quando fu più vulnerabile, al terzo nodo quel non ti amo si fece più chiaro, suadente, tagliente. Un ultimo nodo, alla gola, e lui se ne andò.
Ripensò agli occhi di Lorenzo, il suo tagliente sbatter di ciglia che in quel lungo addio si fecero accetta. In un batter d’occhio uccisero quel poco che di Martina importava ancora.
Martina gettò gli orecchini a terra accanto al penny, a tutti i penny che l’avevano resa così misera. Non voleva più ali, né speranze. Caddero due lacrime da un oceano calmo, piatto. Non erano dolci, sapevano di cruda realtà. Caddero a terra. Si chinò un ultima volta a raccoglierle, erano sue. Ma quelle, minuscole, si sciolsero in un deserto di speranze eluse.
Lentamente, si rialzò. Non raccolse nulla. Gesto inconsueto.
Alzò gli occhi, o meglio, li aprì. Martina Ora sentiva, odor di vaniglia. Non proveniva dalle sue gambe nascoste, nemmeno dalle sue speranze.
Una piccola porticina in fondo alla strada richiamò i suoi sensi. Se li era scordati come si fa con una valigia. Provò un freddo improvviso e intenso da scaldarle il cuore. Le orecchie fredde, rosse, dure, inaridite da troppe parole che troppe volte aveva sentito si sciolsero nel tepore di quella saletta, pareva di porcellana. Chiuse la porta dietro di sé, con delicatezza, come usava chiudere gli occhi quando si fermava ad ascoltare il silenzio. Il campanellino rimbombò come un vecchio carillon.
Aspettò che la tazza di tè si raffreddasse, aspettò, per godere della gentilezza della donna che gliela porse da dietro il bancone. Si sedette su uno sgabello di cedro, era in bilico, ma il legno sotto le sue mani ora curiose sapeva di casa. La tazza fumava e attraverso di essa, con gli occhi ancora lucidi, vide la vita con chiarezza. La fretta non apparteneva a quell’istante, la stanchezza aveva abbandonato le sue gambe mentre l’odore della vaniglia, il sapore sul palato rendevano più vividi i ricordi.
Aveva sopportato troppe bufere, mille strapiombi ogniqualvolta aveva sentita vana la possibilità di essere guardata negli occhi. Martina sapeva, lo credeva, di esser scivolata fuori dal campo visivo di Lorenzo, da millenni forse.
Era una persona piccola, accidentalmente lui l’aveva scorta da qualche specchio che Martina non aveva oscurato in tempo. Si era ripromessa che sarebbe stata più attenta. Era scivolata e Lorenzo aveva visto. A volte basta un piccolo errore, una distrazione e … lei lo sapeva. Poteva e doveva rimediare. Era abile in questo.
Quanti tuffi nell’oceano gelato del suo cuore quando i riflessi di quella scatola nera sembravano ipnotizzarlo. Martina ne era così gelosa, di quella luce perché lei l’aveva perduta. Aveva imparato ad assomigliare a quelle mille immagini, ci si trasformava appena Lorenzo varcava la soglia di casa.
Tutto era di plastica e cartone, i muri di gesso e lei un bel riflesso, di lui, della tv, della bambolina di ceramica poggiata sulla mensola in cucina.
Era più di un’attrice, di una parte. Sapeva accendere i riflettori anche nel buio della loro intimità e puntarli su di lei, le gambe, le poche curve, ma le gambe… Un gioco di luci ed ombre che le richiesero tempo e attitudine, ma niente di più.
Il suo corpo si prestava; labbra da mangiare, rosse come ciliegie, occhi celesti, enormi. Capelli biondi, lunghi, sciolti, avvolgenti sempre, perfetti. Aveva un sacco di difetti ma aveva imparato a nasconderli. L’aveva fatto per amore. Ed ora sapevano così di amaro.
Erano sapori antichi. Li rinchiuse in una palla di vetro. Quelle piccole sfere di neve l’avevano affascinata fin da piccola, così impenetrabili, senza tempo. Ora lasciò che la neve cadesse sul paltò di Lorenzo e ad un’ altra di piroettare con gambe da cinema attorno a lui.
Su quello spazio ovattato Martina spense i riflettori.
Ora gustava, assaporava, l’odore intenso della vaniglia, il sapore dei suoi capelli umidi, i sorrisi di una donna al bancone. E aveva caldo. Sentiva le gambe forti e decise.
Così, scese dal palco.
Fu triste nello scoprire che tutta quella fatica non aveva mai avuto neppure un pubblico, un solo spettatore.
Posò la tazza vuota, di porcellana e prese a camminare sulla neve.
Non aveva mai visto la neve cadere. Un fiocco le scivolò sul viso, nella neve vide il riflesso di una ragazza che correva, a riflettori spenti stavolta la riconobbe, non la ferì.
Mentre chiudeva dietro di sé le tracce del suo passaggio sentì la forza di una fiducia che non aveva mai deluso, di uomini che non aveva mai amato. Si fermò, un solo istante e si chiese se fosse realmente esistito un solo Lorenzo o se indistinti, maschi, uomini, si muovessero ogni volta sulle gambe incipriate di Martina e sfumassero via in tazze di tè dal sapore di vaniglia.
Una strana musichetta prese a risuonare nell’aria e nelle tasche di Martina. Una suoneria del suo cellulare ultima tendenza la portarono in modalità ascendente via, via da quel pensiero.
« Ciao Marti, stasera sono impegnato col Poker. Mi hanno trascinato a Campione, sapessi che figata »
La loro gita in battello, il brindisi sul lago, il loro primo mensilversario, annegati così, nel mare dei soldi su cui Nick amava buttarsi. Gran tuffatore quel Nick.
« Ti sento strana Marti. Mi sembrava avessi una sorpresa per me. Su dai non torno tardi, e guarda che l’ho visto il catalogo di Intimissimi sul sedile della Porsche. Mica me lo perdo»
Martina non aveva fiatato e non fiatò. S’incipriò il naso, accese i riflettori e se ne andò.

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