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Maledisse la Milano ‒ Laghi mentre la percorreva al contrario, lungo la curva che la rimetteva sulla Varese. La forza dell’abitudine o la forza centrifuga che la faceva sempre ritornare sui propri passi e sbalzare fuori dalle sue idee, i suoi progetti, dalla cerchia dei suoi amici, l’aveva immessa, pilota automatico, lungo la parallela che conduceva da lui. Edo la voleva sempre e solo tutta per sé. E Maggie non resisteva a quella forza che chiamava amore.
La sera del 4 gennaio, il giorno prima del suo compleanno, era libera, lui era agli allenamenti e Francesca aveva insistito per cenare e magari a mezzanotte brindare assieme. Ma Maggie senza vincoli aveva lo stesso puntato verso Como, aveva sbagliato strada, di nuovo.
Maledisse la curva male asfaltata.

Questa poi divenne una carreggiata rettilinea e Maggie si rimise nella giusta corsia, direzione casa del fratello di Francesca. Guardò il cellulare, il suo super ritardo lampeggiava sullo schermo assieme ad una chiamata persa di Edo. Così al ritardo si aggiunsero altri dieci minuti di scuse e di ti amo.

Francesca stava tagliuzzando le carote e prese a farlo freneticamente quando ripensò così l’inizio della vigilia dei 23 anni di Maggie. La sua migliore amica tardava ad arrivare e Francesca poteva immaginarsi il perché ma dovette posare il coltello per ricordarsi meglio la scusa, mai banale, di Maggie.
Erano passati due anni, erano cambiate tante cose, in tante vite perciò diveniva ancora più difficile ricordarsi dell’ingresso trionfante che quel giorno fece la sua migliore amica. Tutta d’un pezzo nascondeva sotto il cappottino bianco il corpo esile, pronto ad oscillare sui tacchi 12 al minimo soffio. Quel gracile ramoscello si fece avanti nell’appartamento che profumava ancora delle sedute di make up nelle folli serate dell’esplosiva accoppiata Fra&Mag, ancora teenager.
Avanzò fino alla cucina, tentennò sui tacchi, per un attimo, in una serata in cui il vento faceva ondeggiare i rami spogli. Sfilò un ottimo Chardonney e una catena di spiegazioni che lo superavano in qualità. Eran perle sulle sue labbra.
Mentre si toglieva il cappottino, spiegava Maggie, aveva sbagliato strada.
«Era destino», sorrise, «perché proprio sulla curva, sai, quella difficile, l’ultima della Como ‒ Milano, dovevi vedere com’era malconcia, mi son subito ricordata che era il tratto in cui lavorava quel tipo, quel Luca che mi aveva aiutata a sbrinare i vetri della macchina l’altra settimana».
Francesca se lo ricordava bene, le era costata una lite furibonda, nonostante ora sorridesse, con Edo quando scoprì nelle tasche dei jeans di Maggie un 335 firmato Luca.
«L’ho chiamato per lamentarmi un po’ – forse per restituirgli il favore ‒ ma lui scoppiava di felicità. Aveva dovuto interrompere i lavori al mattino perché Giulia era in travaglio. Dovrebbe partorire a momenti!». Lo disse con una tale dolcezza che sia Francesca che la Clo e l’Elena spostarono l’attenzione sul ritardo di Antonio.
Lo trattenevano sempre fino a tardi all’Artsana. E’ vero era cresciuto di due posizioni in un anno mentre quello che cercava di fare da sei mesi era andarsene. La prima cosa che vedi negli occhi scuri di Antonio, profondi come l’Oceano che ama vedere nelle foto di amici di amici, è un lupo di mare che viaggia di porto in porto. Viveva fisso a Milano da tre anni soffocanti, le tratte più lunghe erano quelle casa-lavoro e lavoro-casa. Faceva amicizia con tutti e si faceva capire anche dal cinese di madrelingua russa che lavorava in uno dei bar che scovava con la festeggiata, le rare volte che lei, spirito libero quanto lui, trovava una scusa a prova di Edo. Antonio amava viaggiare, saliva sugli aerei assieme a tutti gli stranieri, tipe o tipi, che conosceva agli Erasmus Party. Non se ne perdeva nemmeno uno da quando aveva iniziato con l’Artsana. Era il modo all’Antonio di viaggiare, nomade fino al midollo, senza farsi notare da una ragazza, la sua, che gli aveva messo l’immobilità come unica condizione per il loro noiosissimo rapporto che andava avanti dai tempi delle medie. Antonietta era troppo presa dal mosaico delle sue sicurezze. Credo passasse le notti a controllarne le tessere mentre quella dei drink di Antonio volava da Sidney a Shangai.
Suonarono alla porta. Era arrivata anche Veronica.
Tutti i ritardi avevano tolto alla festa il sapore della sorpresa ma gli occhi di Maggie sorridevano all’ingresso trionfante di ogni amico. Le era impossibile immaginare un’altra occasione così sua, con i suoi amici maschi che Edo non concepiva, non gli andavano giù nemmeno le uscite senza preavviso, minimo una settimana.
Manco fosse un guru tibetano Maggie seguiva i suoi ordini, per modo di dire. Si destreggiava meglio di un trapezista tra gli allena e le partite di pallavolo cui Edo andava con troppa poca assiduità per i numeri da circo di Maggie. Zecche succhia attenzioni per Edo, gli amici di Maggie, pochi, erano davvero tanto per lei.
La frequenza di Edoardo agli allenamenti seguivano più il raggio dei suoi bicipiti che una vera e propria passione. Gli allena erano in numero inversamente proporzionale ai suoi muscoli. Più questi crescevano allo specchio meno erano le ore di flessioni, addominali e pesi necessari.
Veronica, la sorella maggiore, suonò al citofono. Fece la gnorri sulle otto passate da mezz’ora e urlò «sono la Vero, presto, è freddo, aprite!».
Su insistenza di Giò era andata in palestra. Lei, bellissima come sempre, eclissava sull’argomento e si controllava la cintura. Sicuramente Giò nel parcheggio invece di darle un bacio doveva averle suggerito la cinta in pelle che non indossava, le donava di più. Se Maggie era fragile, sua sorella era di pietra, non si faceva certo sminuire da certe frequenti note di disappunto, o forse non lo dava a vedere.
Mancava solo Francesco all’appello. Arrivò in ritardo, più del solito perché la tipa slovacca riusciva a trattenerlo sempre più con la forza della sua scarsa autostima.
Le telefonate risuonavano ancor più fredde delle terre da cui Slauka proveniva, puntualmente interminabili ogni volta che Franci doveva vedersi con Maggie. Poteva essere una «questione di differenze culturali», era così che tutti i presenti impietositi dalla cosa solevano commentare. Fatto sta che passavano tutte le sere a litigare. Lui non la mollava, né l’avrebbe fatto. Aveva una missione, renderla felice, trovare la chiave della felicità per quel viso che aveva labbra serrate anche davanti allo Zelig. Questione culturale.
Ogni sera immancabilmente lei gli urlava l’ennesimo fallimento. Franci alzava gli occhi al cielo un attimo ma poi non si arrendeva. Era uno da trenta e lode, tenace, aveva sempre raggiunto i suoi obiettivi scolastici e professionali. Così sarebbe andata con Slauka. Poi un giorno forse si sarebbero anche amati.
C’era tutta la cricca di Maggie. Francesca metteva in fresco lo Chardonney della sua migliore amica da cinque anni, dal terzo anno di liceo. Così simile a lei ascoltava i toni cupi con cui descriveva la sua vita alla Garbatella.
Andrea era un comunistoide figlio di papà, diceva lei. Era il ragazzo per cui la Fra si era trasferita a Roma. Doveva fare la doccia con l’acqua quasi fredda, anche se era Gennaio, solo per non litigare sullo scaldabagno che il padre aveva loro regalato per Natale. Se la cavavano benissimo senza questi «lussi da milanesotta».
La neo romana si trovava a Milano per dare gli esami prima che riprendesse lo Stage sottopagato. Lei s’ammazzava sui libri e lui derideva lei e gli esami che «se li poteva far comprare dal padre assieme ai Sali per il bagno».
Maggie aveva il fucile caricato da mesi, voleva puntarlo contro quell’impotente. Ma nemmeno a letto era mai colpa di Andrea.
La cena sushi bagnata da Chardonney e Martini proseguì tra risate che non facevano entrare il rumore della pioggia che scrosciava fuori di lì.
Ci fu l’ennesimo litigio tra Elena e la Clo. Claudia un attimo se ne stava accucciata tra le braccia coccolose di Elena, ma bastava perderla di vista che metteva il muso e non c’era niente da fare. Nemmeno le mosse trapeziste della sorella maggiore funzionavano. Elena sopportava, da troppo. Andava via dalle feste se Claudia si annoiava. Se Claudia si divertiva rimaneva anche se il giorno dopo si doveva svegliare alle sei. Tanto la Clo di media si stiracchiava non prima di mezzogiorno anche nei giorni di lezione.
La Ele l’andava a prendere in uni, le offriva dall’aperitivo alle cene nei posti più chic. Tutto era dovuto. Questo era il metro che la Clo usava per misurare l’amore di Elena. Era un affare nuovo per lei.
Aveva una memoria incredibile, forse merito di tutti quegli esami che non aveva mai pagato. Francesca si ricordava tutti i dettagli di quella serata lontana, così piacevole, che scivolava via come niente e che così scivolò, fino alla fine.
Arrivarono le undici e tre chiamate perse di Edo.
Maggie tremò, sperò in un allenamento da raggio strappa t-shirt, al quarto squillo rispose. In quel momento Antonio la chiamò accidentalmente dalla cucina. Le orecchie tese dall’altra parte della cornetta sentirono. Nessuno seppe il vero contenuto della telefonata. Maggie si appartò, poi prese il cappotto, fece un cenno nervoso con la mano e se ne andò.
La festa era finita, ma tutti rimasero lì, fermi, a domandarsi ognuno della propria vita che sarebbe continuata uguale il giorno dopo. Era come se il coraggio di cambiare fosse rimasto chiuso nelle foto che presero a sfogliare, tutti assieme, forti e codardi, a specchiarsi in sedicenni intraprendenti che mandavano la vita a farsi prendere le misure dal sarto di zona.
Non c’era momento immortalato, scatto, che sembrasse star stretto a corpi che sprigionavano energia, che sapevano di libertà.
Era mezzanotte. Francesca voleva essere sempre la prima a fare gli auguri. Provò più volte senza risposta alcuna. Si fece l’una quando l’ennesimo tentativo non cadde nel vuoto. A rispondere non fu la voce dolce di Maggie ma quella di una donna che tra il rumore delle sirene disse cose che la Fra non riusciva a capire, non poteva, non voleva.
Maggie non aveva visto le tre chiamate e la voce di Antonio aveva mandato in fumo il suo numero da circo. Era corsa da Edo, aveva litigato e fatto pace. Aveva ripercorso la solita strada, sbagliata, due volte lo stesso giorno.

La curva … , aveva ragione Maggie, era destino.
La Mini era scivolata sull’asfalto sdrucciolevole, su quella curva che al mattino sapeva di vita, all’una di notte urlava morte.
Il corpo bloccato sulla barella. Il volto insanguinato preannunciava la doppia emorragia al cervello. Il viso era un ematoma unico lungo il profilo sinistro. L’occhio che non si apriva, dormiva, riposava, moriva, sembrava una palla da bigliardo, la numero 8: Terzo nervo cranico danneggiato. Aveva il busto bloccato. Seconda, terza e sesta vertebra fratturate. La portarono via, su nuove corsie.
Il lettino di Maggie scivolò sulla Varese lungo la corsia d’emergenza. Su quella delle urgenze, codice rosso, percorse tutto il reparto di neurochirurgia dell’ ospedale di Rozzano, l’ Humanitas, fino in sala operatoria.

«Auguri Maggie». Il cappotto insanguinato per terra fece accasciare Francesca. Nemmeno quando arrivò Edo ebbe le forze di sparare i colpi in canna che l’ amica teneva in serbo per Andrea.
Il ramoscello si era spezzato, la forza centrifuga di quell’amore l’aveva fatta tornare sui suoi passi, poi, lungo la curva del figlio di Luca, l’aveva sparata fuori dal cerchio della sua vita, contro il guardrail. Il corpo di Maggie, orfana della Mini fatta a pezzi, era volato fuori dal finestrino, aveva mangiato catrame mentre la crema aspettava ancora sulla sua fetta di compleanno.

Francesca riprese il frenetico taglia carote, sperava che la cricca fosse in ritardo perché il ricordo aveva trasformato le verdure in cipolle. Forse avrebbero tardato tutti, come quella sera scivolata via, gelida, due anni prima.
Era il 5 gennaio, furono tutti puntuali. Colpa della vita. Quella che per incanto, per forza, aveva rivestito di fiori in pieno inverno, rami un tempo esili, fragili, spezzati. Aveva poi contagiato tutta la sterpaglia attorno. La compagnia di Maggie aveva camminato piano, per giorni, timorosi di udire nel bosco intricato delle loro emozioni uno scricchiolio sotto i piedi.
Ma erano le otto in punto. Gli amici al completo, come vecchie istantanee di un album di foto, arrivavano uno dopo l’altro. Elena si fermò un attimo ad osservare, impaurita, un rametto secco su cui un uccellino addormentato stava per cadere. Continuò a cantare perché sapeva di avere le ali ed Elena continuò a camminare con gli altri. Sembravano una squadra di rugby contagiata da un capitano che non se ne stava in panchina. L’energia e la grinta erano quelle.

Antonio era atterrato da Sidney due ore prima, aveva preso un taxi direzione casa del fratello di Francesca. Si sarebbe fermato lì un paio di giorni, non aveva più fissa dimora. Il lavoro lo costringeva ancora a viaggiare. Le rotte erano quelle tracciate non dalle gomme stanche della fiat Punto che si erano definitivamente consumate nel ritorno di Antonietta in Puglia, ma da scie bianche nei cieli di mezzo mondo.
Fu il primo. Poi arrivarono Veronica ed Elena. Senza la Clo.
Elena aveva detto alla Claudia, l’ennesima volta che le mise il broncio ad una festa, che se non voleva rimanere poteva pure andarsene. Elena faceva progetti per il suo futuro perché ora aveva il tempo per farlo. Ebbe anche quello per conoscere la Vale. Con lei condivideva tutto, si smezzava pure le pinte di birra ed un piccolo Jack Russel. La piccola Jackie si accucciava tra le braccia coccolose della Ele e se la perdevi un attimo di vista spuntava da sotto le coperte, tirava fuori il muso e scodinzolava.
Veronica arrivava, non dalla palestra ma da un compromesso: lezioni di latino americano. Aveva subito conosciuto un giovane aitante che le aveva fatto dimenticare in qualche breve scappatella la scarpa non in tinta con la borsetta. Un giorno sputò tutta la faccenda in faccia a Giò.
Per la Vero tutta a modo, che si faceva andare bene tutto, tutta sorrisi e sorrisini, questo era un bel cambiamento. Ora Giò si ricordava di baciarla anche nei parcheggi, re-imparò la parola ti amo e le uniche cose che diceva stonare erano i divani con le tende del suo nuovo appartamento in Via Pinerolo. Divenne presto il Loro.
Francesco arrivò senza cellulare. Aveva buttato in mare tutte le chiavi provate dall’usura del tempo e si era disteso su sabbia calda. Aveva poi saputo che Slauka aveva ricevuto una borsa per un dottorato in America. Franci in qualche modo era riuscito nella sua missione. Ora cercava l’amore.
Mancava il vino, doveva prenderlo Francesca, che si era persa nei ricordi.
Un ricordo lontano lo era Andrea de Roma. Dopo svariati incontri da una sessuologa la Fra s’era rotta, come lo scaldabagno per la quarta volta quell’inverno. Voleva fare il bagno nell’acqua calda. Cercò di spiegarlo al suo coinquilino spara sentenze, ovviamente lui non capì, lei partì.
Edo aveva preso ad occupare tra discoteche, lettini abbronzanti e beach volley il tempo non più di Maggie. Lei aveva cambiato corsia. Non era più un 4 acrobatico quello. Era la sera del 5 gennaio. Due anni dopo. Quella notte la cricca di Maggie ce l’aveva fatta.
Si erano fatte le otto e mezza, il vento non fischiava più forte tra ramoscelli esili ma diffondeva nell’aria, leggero, l’odore degli alberi in fiori, portava con sé la Primavera.
La Fra aveva dimenticato il vino un po’ perché stava finendo la tesi della specialistica che non aveva pagato e un po’ apposta, perché non era mai stata lei l’esperta delle due.
Il campanello della porta risuonò nell’appartamento del fratello di Francesca e nelle orecchie di tutti.
«Chi vuole dello Chardonney?»

Commenti

  1. Dopo tanto tempo è ancora bello questo racconto, forte e bello.

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