Tic..tictictic..Tic. SILENZIO

Uno scroscio improvviso attraversò i collant di Penelope mentre i tacchi incerti calpestavano i sassi scomposti che la riconducevano in quell’appartamentino. Fuori muri scrostati, segni graffianti sul portone dell’ingresso e un piccolo stagno dove le alghe ridavano aria a pesci immobili. Non si curavano del cibo che i bambini lanciavano loro, molliche di pane quando andava bene, carte di caramelle. No quelle creature sapevano cibarsi del fondo degli oceani, s’immergevano nell’abisso di un piccolo stagno e da lì tornavano quasi a galla più forti. Una forza che Penelope non seppe mai a cosa servisse. Le gocce punzecchiavano l’acqua, non aveva tempo per rifarsi quella domanda, doveva strappare i capelli lisci e ben ordinati alla pioggia che senza pietà si aggrappava trasformandoli in una parrucca da circo. Penelope amava i suoi capelli perché non avevano niente da nascondere, e non potevano, non sapevano. Se Penelope li stirava con la piastra, li pettinava con la seta si vedevano raggi di sole ovunque. Ma i giorni funesti, quelli senza scrosci ma pieni di lampi taciturni, quei fili dorati che scorrevano sulle spalle di una donna minuta divenivano spenti, muti:i soli a poter dire la verità del groviglio che si portava sul petto. Le parole quelle erano sempre pulite, ordinate come i vestiti, cordiali come i sorrisi che nascondevano un dolore che la folta chioma, stridente, urlava. Penelope decise di farsi quattro piani a piedi. Voleva sentire il peso di ogni minima parola che la rendevano piccola. Ogni gradino parlava, urlava sotto l’esile peso di un cuore che non aveva dimora, di pensieri pesanti che cercavano disperatamente un nome. Vergogna. Provava vergogna. Aveva taciuto di nuovo alle parole facili che un uomo poco più grande ma con una posizione molto più grande di ogni sguardo di pietà che Penelope sapeva lanciare, aveva pronunciato, sogghignando. Penny voleva urlare, dire chi era, uscire da un a gabbia in cui i pregiudizi dell’ennesimo l’uomo l’avevano rinchiusa. In due mesi non era riuscita a piangere. Qualche birra bionda aveva reso più semplici o meglio anestetizzate le notti, quelle che ti parlano. E non importa a nessuno perché tutti dormono. Ma lei no. Penelope forse quella notte compiva la cinquantesima notte tra la veglia e il sonno. “Sei una figlia di papà”, era la frase la cosa più ricorrente che udisse mentre tutta concitata scriveva di quel mondo che adorava e sentiva suo da anni. Da quando la storia, quella sui libri, quella su visi di bambini sporchi di fango, quella che aveva sentito attraversarle l’anima, avevano deciso che Penelope sarebbe stata la sua casa. E lei di certo non avrebbe mai sfrattato se stessa, perché era parte di sé tutta quella vita sofferente che altri non dovevano più subire. Ma questo cosa importa. Se uno è nato fortunato, che poi Penelope non sa ancora cosa sia fortuna, forse incontrare la storia è stato il suo giorno fortunato, o imbattersi in Marian, o scontrarsi contro un guardrail, forse … se uno nasce fortunato l’ha sentito ogni mattina, ingoiando la saliva amara, il caffè che non voleva assaporare, scrivendo progetti che la emozionavano e rendevano di un valore impensabile quelle ore…se uno nasce fortunato, una voce sagace le sussurrava, deve solo stare in quel mondo fortunato e tagliarsi la frangetta, raddrizzare gli occhi per vedere che il mondo della cooperazione non è fatta per chi sebbene viva per la salvaguardia di diritti violati, si affanni per un solo sorriso in più in questo pianeta, sebbene senta che la storia sia un universo immenso di cui siamo tutti responsabili..shhh..non dirlo Penelope, quel mondo non è fatto per te. Il mattino dopo Penny si mise le Nike ai piedi, camminò a lungo e consegnò a chi non le faceva vivere sogni e vita le chiavi della propria dignità recuperata. Certo le parole escono difficili dalle orecchie. Ma stanotte ha smesso di piovere e i pesci mangiano per vivere.

Commenti

  1. ..e se uno nasce fortunato, legge un racconto così. grazie. giovannicovini.

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